Attualità

TECNOLOGIA. Cliccami, stupido

Stefania Garassini venerdì 1 giugno 2012
Di fronte al cursore che pulsa e ci intima di "fare clic per inserire un titolo" nella nostra presentazione PowerPoint, forse nessuno di noi si pone troppe domande: cerca una frase efficace e la scrive. Ma in quell’operazione – apparentemente banale – in realtà si nasconde qualcos’altro che andrebbe indagato con più attenzione. Almeno questa è la tesi di un libro fresco di stampa, «Il pensiero PowerPoint. Il programma che ci rende stupidi», di Franck Frommer (Lantana), secondo cui il software Microsoft usato da centinaia di milioni di utenti in tutto il mondo sarebbe in realtà un potente strumento di semplificazione del nostro modo di pensare con effetti tutt’altro che positivi. «PowerPoint crea l’illusione della comprensione e del controllo, trasformando la parola in uno spettacolo privo di logica e di rigore – si legge nel saggio –. I problemi del mondo non sono riducibili a un elenco puntato».Frommer non se la prende tanto con il programma in sé quanto con l’uso che ne viene fatto, che va nella direzione di un appiattimento di ogni riflessione – anche la più complessa – per adeguarsi a una forma nella quale i concetti sono elencati in modo sintetico e astratto, spesso senza una successione logica coerente. La tesi di Frommer non è nuova. PowerPoint aveva già attirato numerose critiche: le più clamorose erano state quelle dell’esperto di grafica Edward Tufte che in un saggio del 2003 dimostrava fra l’altro come l’utilizzo di una presentazione PowerPoint avesse portato i dirigenti della Nasa a sottovalutare i rischi della missione dello Space Shuttle Columbia, che si sarebbe poi conclusa tragicamente.Da un paio d’anni la disputa su PowerPoint si è inserita nel più ampio dibattito sull’impatto cognitivo dell’uso dei computer e di Internet. Il giornalista Nicholas Carr si chiede se «Internet ci rende stupidi?» (Cortina, 2011), mentre il geniale programmatore Jaron Lanier ammonisce di non lasciarsi intrappolare dalle logiche del computer nel suo «Tu non sei un gadget», (Mondadori, 2010), e Howard Rheingold in «NetSmart», da poco uscito negli Stati Uniti, si propone di offrire una guida alle peculiarità della nuova "intelligenza in rete".«È presto per stabilire l’impatto cognitivo di queste tecnologie – spiega ad <+Ev_cors>Avvenire<+Ev_testo> Roberto Casati, direttore di ricerca del Cnrs di Parigi –. Mancano studi empirici affidabili. E non è neanche chiaro come si possano ottenere, visto che gli strumenti e i sistemi cambiano con grande rapidità. Disponiamo soltanto di misure quantitative molto semplici, sul numero di computer presenti nella scuola o in certi ambienti lavorativi».In assenza di studi in grado di offrire risposte sufficientemente sicure sarebbe forse imprudente abbracciare in pieno una tesi catastrofista come quella di Carr secondo il quale Internet trasformerebbe la nostra mente in quella di un giocoliere alle prese con stimoli sempre nuovi da affrontare e governare. «È certamente vero che oggi è molto più problematico gestire l’attenzione. Un esempio è proprio quello delle lezioni universitarie – continua Casati –: io devo vietare esplicitamente agli studenti di navigare in Rete durante le mie spiegazioni. Però credo che non si possano ancora trarre conclusioni sulle conseguenze per il nostro apparato cognitivo. Trasformazioni di questo tipo richiedono tempi molto lunghi: nel caso della scrittura ci sono voluti secoli per metterla a punto e ci vogliono anni per imparare a dominarla. Oggi se vediamo un insieme di lettere in una scrittura a noi nota non possiamo non leggere: questo significa che il nostro cervello è irrimediabilmente cambiato, dopo il processo di educazione cui siamo sottoposti dall’infanzia. È presto per dire se qualcosa del genere stia avvenendo anche per le tecnologie».Ma in una situazione d’incertezza, com’è quella in cui ci troviamo, non sarebbe giustificato neanche un entusiasmo acritico. «Non c’è una risposta univoca al quesito sull’impatto cognitivo di questi strumenti: andrebbero fatti studi specifici sulle singole abilità. Nel frattempo dobbiamo cercare di confrontarci continuamente con le nuove tecnologie e saperne  prendere le distanze», sostiene lo studioso. E PowerPoint? «Credo che qui le critiche siano più giustificate. Si tratta di uno strumento estremamente rigido che non consente di far cogliere la pertinenza dei dati e riduce le capacità di analisi. È adatto a brevi presentazioni di risultati scientifici in forma programmatica, non certo a organizzare interi corsi o la spiegazione di argomenti complessi».