I Centri di identificazione ed espulsione? Sono «gabbie, luoghi di reclusione meno tutelati delle carceri», che «generano conflittualità, violenza, autolesionismo, perché la persona non è tutelata». Inoltre «al loro interno non vi sono progetti lavorativi, scolastici e di tutela». Insomma, si tratta di «una forma di reclusione che non aiuta la promozione della persona e che costituisce una vergogna nel sistema europeo di controllo delle persone migranti irregolari». A poche ore dall’inchiesta pubblicata ieri da <+corsivo>Avvenire<+tondo> sul mondo dei Cie, monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei, torna a bocciare queste strutture e spiega: «Riproporre il tema dei Cie come luoghi disumani, come Centri in cui gli appalti sono costruiti dal gioco al ribasso, che genera, oltre al malaffare, anche la mancata tutela delle persone, credo costituisca un gesto importante per costruire responsabilità sociale e tutelare la legalità attorno a persone deboli, sfruttate e in fuga».Perego sollecita quindi una rilettura, a livello di Ue, «di questo strumento, perché possa essere adattato alle migrazioni irregolari, ai tempi del rimpatrio, alla tutela delle persone che non hanno un titolo di soggiorno».Limpida la posizione della Caritas, espressa dal responsabile dell’Ufficio immigrazione, Oliviero Forti: «Noi siamo per un ripensamento totale del sistema dei trattenimenti e delle identificazioni. Per farlo, occorrerebbe una consultazione ampia coinvolgendo chi è impegnato come noi nella promozione umana e nella sensibilizzazione». Non c’è più tempo di rinviare perché, aggiunge Forti, «queste strutture, che andrebbero prima di tutto "umanizzate", non riescono più a svolgere le attività per le quali sono nate». Inoltre, il trattenimento di chi vi entra fino a 18 mesi «è improponibile». Forti, oltre a un "tavolo allargato" lancia un’altra proposta: parte dei soldi impiegati (male) «per il contrasto all’immigrazione irregolare, dovrebbero essere reinvestiti nelle politiche di integrazione, a tutto vantaggio del Paese e delle stesse persone interessate».Angelo Chiorazzo, della società cooperativa Auxilium, che gestisce, tra gli altri, il Cie romano di Ponte Galeria, punta su un modello diverso, di «socializzazione». «Con il garante dei detenuti del Lazio – afferma – abbiamo realizzato a Ponte Galeria un campo di calcetto, proposto corsi di italiano e di teatro, e, per le donne, corsi di cucito. Ci sono una chiesa e una moschea, oltre a una biblioteca». Alcune attività sono poi state sospese per pericolo di gesti di autolesionismo. «Ma secondo me – incalza Chiorazzo – bisogna incrementare queste iniziative, lavorando come se dall’altra parte ci fossimo noi. Grazie alla disponibilità della prefettura di Roma cerchiamo di venire incontro alle esigenze degli immigrati prevenendo problemi che l’inchiesta di
Avvenire ha messo in luce».Inchiesta richiamata anche da Giuseppe Scozzari, del Consorzio Connecting People, per il quale «l’unico indicatore per l’aggiudicazione di una gara in favore di società gestionali, non può essere il criterio del maggior ribasso». Inoltre, «ci sono tanti aspetti che vanno rivisti. Inizierei dalle piccole cose. Per esempio, consegnare a queste persone una scheda telefonica periodica da 5 euro è quasi inutile. Ci sono strumenti più economici, quali Skype o la posta elettronica, utilizzati anche in Paesi in via di sviluppo». Un altro suggerimento: «Molte persone che arrivano nei Cie hanno un profilo carcerario, e quindi una identificazione già accertata da parte del ministero della Giustizia. I cui dati potrebbero essere condivisi dal ministero dell’Interno per evitare l’inizio di nuovi iter identificativi».Nel dibattito interviene anche Gabriella Guido, della campagna "LasciateCIEntrare": «Chi visita i centri – dice – riconosce che queste strutture ledono i diritti civili e la dignità umana. Il trattenimento fino a 18 mesi è del tutto inefficace ai fini dell’identificazione e gli accordi con gli Stati extraeuropei non funzionano». Sul capitolo dei servizi erogati, Guido dichiara che ci sono «appalti assegnati senza bando di gara»; è «il "business" dell’immigrato». Paradossale, poi, la vicenda dei cittadini stranieri «che provengono dal carcere, "liberi" per aver scontato una condanna penale ma ora rinchiusi per una nuova detenzione amministrativa».