Stranieri. Fondazione Migrantes: «I Cie hanno già fallito»
Il Cie di via Corelli a Milano, oggi chiuso
Continua il dibattito sulla riorganizzazione dei centri di identificazione ed espulsione. Molti i dubbi, però. In passato però non hanno risolto i problemi, anzi hanno creato tensioni e difficoltà. Ne abbiamo parlato con don Giancarlo Perego, direttore di Migrantes
Vennero chiusi perché non funzionavano, costavano troppo, attiravano le denunce delle organizzazioni umanitarie e le sentenze della Corte dei diritti dell’uomo. Soprattutto i Cie vennero chiusi perché la politica dei rimpatri ha sempre fatto flop.
Cosa è cambiato da allora? «Niente - risponde don Giancarlo Perego - direttore della fondazione Migrantes - . Salvo quelli con Tunisia, Marocco, Egitto e Nigeria, non ci sono accordi per rimpatri forzati né assistiti, dunque una volta identificati i cosiddetti irregolari, e appurato che non c’è modo di riportarli nei Paesi d’origine, il governo come intende procedere?».
Il punto debole dei Centri di identificazione ed espulsione è sempre lo stesso, perciò sono stati chiusi. Le norme, che non sono cambiate, contenevano molte falle. Una per tutti. Quando uno straniero viene arrestato a causa di un reato comune (furto, rapina, spaccio di droga etc.) subito dopo la condanna viene condotto in carcere, ma durante il periodo di detenzione non vi è alcun obbligo all’effettiva identificazione. Ne conseguiva che, una volta scontata la pena, il pregiudicato veniva accompagnato nei Cie per espletare le pratiche di reale riconoscimento per periodi che non di rado superavano i 180 giorni.
Questo non solo esacerbava gli animi – facendo condividere la permanenza in promiscuità tra delinquenti matricolati e magari padri di famiglia, pizzicati a lavorare in nero e senza permesso di soggiorno – ma gonfiava a dismisura la popolazione dei Cie. Per non dire delle numerose inchieste sugli appalti per la gestione delle strutture, alcune delle quali chiuse d’imperio dai prefetti dopo che le inchieste giornalistiche avevano permesso di scoprire che agli ospiti non erano garantiti i diritti minimi e che i dipendenti non ricevevano il salario.
Istituiti nel ’98 come Centri di permanenza temporanea per gli stranieri sprovvisti di regolare titolo di soggiorno e non aventi titolo per chiedere asilo o protezione internazionale, sono stati a lungo al centro di violente polemiche perché paragonati a delle carceri: non a caso il tempo di "detenzione" (amministrativa) è più volte oscillato nel tempo da un minimo di 30 giorni a un massimo di 18 mesi.
«La proposta di affidare ancora una volta le politiche sull’immigrazione a un investimento sui Cie, è vecchia e stantia ancor prima di essere avviata. Ci hanno già provato – sapendo che si tratta solo di un’uscita propagandistica, che alimenta odio e razzismo e favorisce i predicatori d’odio – ministri e governi precedenti, senza ottenere alcun risultato concreto». È quanto scrive la presidente nazionale dell’Arci, Francesca Chiavacci, in una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Interno Marco Minniti.
«Si era sempre parlato di hub regionali per accoglienza persone da identificare. Strutture per accogliere persone per pochi giorni. Perciò è una brutta sorpresa, lo scoprire una circolare nella quale si riportano in vita strutture che hanno segnato il fallimento delle politiche migratorie», insiste don Perego ricordando come i Cie «fossero diventati luoghi di radicalizzazione, nei quali avvenivano scontri, proteste, incendi».
Nell’anno del boom degli sbarchi, era il 2014, si contavano quattro tipologie di strutture: i Centri di identificazione ed espulsione (Cie); i Centri governativi per richiedenti asilo (Cara, Centri di primo soccorso ed accoglienza, Centri di accoglienza); le strutture temporanee e i posti Sprar (Sistema d’accoglienza per richiedenti asilo).
L’eredità dei vecchi Cie è lungi dal venire dimenticata. Appena dieci giorni fa la Corte di Cassazione ha confermato la condanna contro le autorità nel caso di un cittadino straniero, rinchiuso nel Cie di Bari, destinatario di un’espulsione senza che gli fosse stata fornita adeguata assistenza, a cominciare dalla possibilità di ottenere asilo politico o una qualche forma di protezione.
Al momento, i Cie effettivamente operativi sono cinque, per una capienza totale di circa 350 posti: Roma, Torino, Brindisi, Caltanissetta e Bari (quest’ultimo però inagibile per lavori). Trapani di recente è stato trasformato in "hotspot", uno dei centri per l’identificazione dei migranti richiesti dalle normative europee, mentre in diverse delle vecchie strutture si è optato per la chiusura oppure sono in corso lavori di ripristino e ricostruzione imposti quasi sempre da roghi dolosi e danneggiamenti volontari.