Sinodo. La Chiesa sulle frontiere dell’oggi, la missione è l'ascolto
Benedetto XVI ripeteva spesso, a proposito del Concilio Vaticano II, che ne era esistito uno “di carta” (raccontato cioè dai media) e uno effettivo, del quale da giovane teologo egli era stato testimone oculare. Si potrebbe ripetere più o meno la stessa cosa per il Sinodo. E la prova viene proprio dalla “Lettera al Popolo di Dio”, pubblicata ieri, a pochi giorni dalla conclusione di questa prima assemblea sul tema della sinodalità. C’è stata, nelle scorse settimane, l’assise delle aspettative mediatiche e c’è invece quella vera, di cui questo documento costituisce uno specchio fedele. Se infatti nel Sinodo dei mezzi di comunicazione a prevalere è stata l’attenzione su singoli temi (il sacerdozio femminile e la benedizione delle coppie gay, ad esempio), la Lettera ci restituisce l’idea di quella coralità di voci e di accenti, che è sintetizzata nell’espressione “complementarità delle vocazioni” posta quasi in apertura del testo.
A ben guardare non è solo una notazione di cronaca. È invece una bussola per comprendere il Sinodo effettivo e la sua metodologia, che viene prima del dibattito, sia pure importante, sui singoli temi. Metodologia che chiede ora di essere riprodotta nella vita delle comunità, in attesa dell’assemblea del prossimo anno e di tutto ciò che verrà dopo. Ma intanto è emerso con forza che il Sinodo – il Papa è stato chiarissimo su questo punto fin dal primo giorno – non è sinonimo di assemblearismo cattolico, né tanto meno di decisionismo a colpi di maggioranza. E la Lettera al Popolo di Dio lo ha confermato. Si è trattato invece di ascoltare la voce dello Spirito e costruire così quella “comunione missionaria” che è motore dell’azione della Chiesa nella società.
Ecco il punto decisivo anche di questo Sinodo. Una Chiesa la cui vocazione «è annunciare il Vangelo, non concentrarsi su sé stessa». E allora la metodologia sinodale autentica, lungi dall’essere una circolarità autoreferenziale, è invece dinamica che porta sulle frontiere del mondo. Cioè nei luoghi in cui può e deve realizzarsi il fecondo incontro tra l’ascolto dei sofferenti e la Parola che salva. La Lettera menziona in particolare i poveri e gli esclusi, le vittime del razzismo e degli abusi a sfondo sessuale e i popoli indigeni. Ma altre categorie potrebbero aggiungersi.
Le implicazioni sono fondamentali soprattutto sul versante laicale. Il messaggio che arriva dai padri sinodali, con la sottolineatura della necessità di un ascolto dei laici, riporta al quarto capitolo della Lumen Gentium, che valorizza fortemente la missione dei laici nel mondo, oltre che nella Chiesa. Sarebbe una ben riduttiva (e triste) nozione di sinodalità quella che la trasformasse in una sorta di Manuale Cencelli del “potere” nelle nostre comunità, al fine di limitare il primato del vescovo o del parroco e di riservare l’equivalente delle “quote rosa” nella ripartizione delle incombenze ecclesiali. Sono battaglie “di sagrestia” o, meglio, di retroguardia.
La sinodalità che emerge dai lavori assembleari è, al contrario, come ricorda il documento pubblicato ieri, «sinergia in tutti gli ambiti della missione». E va declinata dunque sulle frontiere della politica (la più alta forma di carità, secondo Paolo VI), della cultura (una fede che non lo diventa rischia di non essere pienamente vissuta, come ci ha ricordato Giovanni Paolo II e come ribadito ieri da papa Bergoglio all’udienza generale: «Non si può predicare un Vangelo in astratto, il Vangelo va inculturato»), dell’antropologia (si ricordino le riflessioni di Benedetto XVI sulla grammatica inalienabile dell’umano), della salvaguardia del creato e dell’economia (strettamente collegati, come insegna Francesco). Sinodalità che significa non lasciare soli coloro che su queste frontiere si spendono da cristiani.
Sinodalità che invita a riflettere insieme sulle grandi questioni del nostro tempo (la ricerca della pace, innanzitutto), a fare opinione mostrando i limiti dell’individualismo e del relativismo, a offrire quella speranza che manca troppo spesso nel vissuto di ogni giorno (e che non a caso è il tema del prossimo Giubileo). In definitiva a indicare quell’orizzonte di senso che, secondo la mirabile espressione di San Paolo, trova in Cristo la ricapitolazione di tutte le cose.
«Proprio la sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio», diceva qualche anno fa il Papa. Servono allora uomini e donne, comunità e chierici disposti a spendersi per una sinodalità che non alimenti sterili discussioni in salsa politically correct, ma vada alla sostanza dei problemi, per illuminarli con il Vangelo. In questo senso l’immagine di una Chiesa sinodale aperta a tutti (ma non a tutto, come vorrebbero alcuni) coincide perfettamente con l’icona di Emmaus. In quel camminare insieme alle persone per risollevare con le Scritture i cuori delusi. E soprattutto per riconoscersi fratelli intorno alla mensa in cui si spezza il pane. Compreso, per chi lo vorrà, quello eucaristico.