L’intervista. «Chi si impegna nella politica non si presti a dividere i cristiani»
L'arcivescovo Giacomo Morandi
«La politica è la più alta forma di carità, lo ha ribadito papa Francesco, citando Paolo VI, che a sua volta si rifaceva a una definizione di Pio XI. Proprio per questo non può essere svilita creando confusione con le attività tipiche della comunità cristiana e le attività di tipo partitico», spiega il vescovo di Reggio Emilia-Guastalla, Giacomo Morandi. A inizio febbraio una sua comunicazione dal titolo molto chiaro (In politica per il bene comune con chiarezza di ambiti e ruoli) e con robusti precedenti politici ed ecclesiali (vedi il box a lato), fu invece «strumentalizzata a fini impropri e polemici». Nella comunicazione indirizzata al vicario generale e ai parroci scriveva di ritenere «opportuno» che quanti intendano candidarsi alle prossime elezioni europee e amministrative dell’8 e 9 giugno debbano dimettersi da ruoli di responsabilità ricoperti, «lasciando i rispettivi incarichi sia nel consiglio pastorale diocesano che nei consigli parrocchiali. Non vorrei, infatti, che le chiese e le parrocchie possano diventare luoghi di campagna elettorale». In una diocesi che ha fatto la storia d’Italia nel bene e nel male (patria del Tricolore, ma anche laboratorio di violenza politica, dagli eccidi di sacerdoti nel dopoguerra alla nascita del terrorismo brigatista) con tante esperienze in campo, anche di rilievo nazionale, sul versante dell’impegno politico come su quello dell’impegno sociale, c’è chi ha voluto leggere in quelle parole una presa di distanza dall’impegno per la politica.
La Chiesa, come emerge anche nella preparazione della Settimana sociale di Trieste che celebrerà i 50 anni, è attraversata da rischi di divisioni e polarizzazioni che la politica ha tutto l’interesse a enfatizzare. Chi sceglie l’impegno politico come forma di carità invece di prestarsi a queste divisioni, tenendo distinti - come dicevo - i livelli di impegno, dovrebbe curare l’unità dei credenti anche in politica, al di là delle diverse scelte di campo. Il rispetto della vita umana, la tutela della famiglia, l’aiuto agli ultimi, l’accoglienza dei migranti non sono un “optional” da seguire o trascurare a seconda delle preferenza della parte in cui si milita. Lo stesso si può dire, per chi si candida in Europa, circa il perseguimento della pace tanto invocata dal Papa e dal presidente della Cei. La dottrina sociale è chiara, cito la Laborem exercens di Giovanni Paolo II, la Caritas in veritate di Benedetto XVI e la Fratelli tutti di papa Francesco. Chi si impegna in politica ha il dovere di non prenderla in considerazione a pezzetti, ma tutta insieme. Ed è una distinzione che ha un valore biunivoco. E chi resta impegnato sul piano ecclesiale ha il dovere di non fare uso della politica per strumentalizzare a fini personali i suoi incarichi sul piano ecclesiale o delle opere di carità.
IL PRECEDENTE DI ALDO MORO
Il problema del duplice impegno lo pose già Aldo Moro nel settembre del 1945. «Non sarà certamente il Movimento Laureati a pretendere di trattenere in modo esclusivo i suoi aderenti, sottraendoli alle loro specifiche responsabilità», così scriveva lo statista Dc in una circolare inviata da segretario dei Laureati cattolici ai responsabili diocesani. «Ma crediamo di poter chiedere a tutti eguale rispetto per la funzione propria ed insostituibile dell’Azione Cattolica, la quale ha compiti di formazione religiosa e di azione sociale del tutto distinti». Si era alla vigilia dell’assemblea Costituente. La regola alla fine Moro, da candidato per la Democrazia cristiana, la applicò a se stesso. Avrebbe preferito dimettersi subito, ma i vescovi gli chiesero di limitarsi alla sospensione, e di farlo solo dopo in caso di elezione. E così fece. (A.Pic.)