Dopo Genova. Concessioni autostradali: chi paga, e chi guadagna, con i pedaggi
Il casello della BreBeMi, l'autostrada che collega Milano, Bergamo e Brescia, inaugurata nel 2014 (Ansa)
Gestire un’autostrada è un’attività molto redditizia. Lo sapeva bene l’ingegnere milanese Piero Puricelli quando nel 1923 propose a Benito Mussolini il progetto della Milano-Laghi, 84,5 chilometri di strada riservata alle auto «non interessata da altre vie, con caratteristiche geometriche, tecniche e strutturali idonee per esplicare le prestazioni di velocità e di portata con la maggiore garanzia di sicurezza». Nessuno al mondo aveva ancora realizzato un’autostrada così lunga. Mussolini, entusiasta della costruzione di un’opera che avrebbe dato lustro al regime, accettò. La Società Anonima Puricelli Strade e Cave fu incaricata di costruire l’autostrada, con l’aiuto di generosi finanziamenti pubblici. In cambio avrebbe incassato i pedaggi per mezzo secolo, dopodiché l’avrebbe restituita allo Stato. Senza avere il genio di Puricelli, anche oggi le società che ottengono dallo Stato la concessione per la gestione di un’autostrada fanno grandissimi affari, raccogliendo miliardi di euro di utili e distribuendo ricchi dividendi ai propri soci.
Di chi sono le autostrade italiane
Tutte le autostrade italiane – 7.488 chilometri totali – appartengono allo Stato che le controlla attraverso Anas Spa, società interamente controllata dal ministero del Tesoro. Di quei 7.488 chilometri una piccola parte, 954 chilometri, è gestita direttamente dall’Anas, che non chiede pedaggi: sono dell’Anas, ad esempio, la Salerno- Reggio Calabria, la Palermo Catania, il Grande raccordo anulare di Roma. Altri 483 chilometri sono gestiti dall’Anas in società miste con le Regioni, e sono strade a pagamento, come la Bre.Be.Mi, la Roma Latina o la Tangenziale Est Esterna di Milano.
Ma gran parte delle autostrade italiane, 5.887 chilometri, sono date in concessione a società private. Attualmente il ministero dei Trasporti ha 25 rapporti di concessione con 24 società. Le società concessionarie ricevono dall’Anas il compito di gestire l’autostrada, fare manutenzione, costruire eventualmente nuovi tratti e riscuotere i pedaggi. I lavori previsti e gli investimenti da fare sono specificati nel contratto di concessione, che in genere ha una durata molto lunga. Autostrade per l’Italia, con i suoi 2.857 chilometri in concessione, è la prima concessionaria d’Italia. Al secondo posto Gavio, che ha 1.423 chilometri di rete autostradale, compresi i preziosi tratti del Nordovest.
Gran parte delle concessioni oggi attive sono state rinnovate nel 2007. Quelle con Autostrade, in particolare, dureranno fino al 2038, scadenza prorogata poi al 2042 dal governo Renzi nel 2017. Alcune convenzioni sono scadute e la società autostradale gestisce tutto in proroga nell’attesa di una nuova gara. Per anni le convenzioni sono rimaste secretate. Soltanto dallo scorso febbraio il ministero dei Trasporti in uno sforzo di trasparenza le ha rese tutte disponibili sul suo sito, anche se con molti omissis.
Non è scontato che l’autostrada si paghi. Ad esempio negli Stati Uniti o in Germania è gratuita, mentre è a pagamento in altri Stati europei, compresi Francia, Spagna, Portogallo e Austria. L’autostrada si paga anche in Brasile, Messico e Giappone.
A chi vanno i soldi del pedaggio
Il pedaggio è riscosso dalla società autostradale. Il prezzo è concordato ogni anno tra l’Anas e la società concessionaria in base a calcoli complessi che comprendono i dati di traffico, la redditività, parte dell’inflazione, la realizzazione degli investimenti, la qualità del servizio. Nel 2017, secondo i dati di Aiscat, l’associazione delle concessionarie autostradali, dal pagamento dei pedaggi le aziende hanno incassato 8.050 milioni di euro. Di questi, 1.452 milioni sono andati direttamente allo Stato come Iva e altri 654 milioni come “canone aggiuntivo”.
Al di là dell’Iva che paga ogni impresa, le concessionarie devono infatti pagare allo Stato anche il canone per l’uso dell’infrastruttura. C’è un canone fisso, che dal 2007 è pari al 2,4% dei pedaggi al netto dell’Iva, e a questo si aggiunge un’integrazione in base ai chilometri percorsi. Attualmente sono 6 millesimi di euro per ogni chilometro percorso da auto, pullman e furgoni e 18 millesimi di euro per i mezzi pesanti e le auto con rimorchio. C’è infine un terzo canone, chiamato di sub concessione: è una tassa che va dal 2 al 20% di quanto i concessionari incassano dalle concessioni vendute a loro volta, ad esempio quelle che gli pagano le società delle aree di servizio.
Nel 2016, secondo gli ultimi dati del ministero dei Trasporti, al netto dell’Iva lo Stato ha incassato 841,7 milioni dalle autostrade: 135,5 milioni dai canoni di concessione, 630 milioni dalle integrazioni, 19,9 milioni dai canoni di sub-concessione (e poi si aggiungono gli incassi dai regimi particolari della Asti-Cuneo e della Strada dei Parchi).
L’autostrada come business
Tolte le spese per tasse e concessioni, aggiunti gli incassi dai canoni delle aree di servizio e altre attività (468 milioni di euro), nelle casse delle società che hanno le concessioni restano comunque molti soldi. Certo, in parte devono essere spesi per la gestione, ma l’attività del concessionario autostradale è estremamente redditizia. Restiamo sui dati del 2016. I 5,7 miliardi di euro di pedaggi netti delle 24 società concessionarie sono stati incassati a fronte di 2,9 miliardi di euro di costi di produzione, che includono gli stipendi (943 milioni) e le spese per la manutenzione (646 milioni nel 2016).
Gli investimenti non sono enormi e storicamente sono inferiori a quanto promesso al governo. Per il periodo 20082016, nota il ministero, le concessionarie hanno investito 15 miliardi contro i 21,7 che erano stati promessi nei piani finanziari. Anche escludendo gli effetti dei ritardi fisiologici dei lavori, nota il governo, le società hanno fatto solo l’85% degli investimenti promessi. Per Atlantia il completamento è al 98%. Il risultato operativo totale nel 2016 è stato di 2,6 miliardi di euro. Tolte le spese finanziarie, rimane un utile netto di 1,1 miliardi. Niente male, come margine.
Le stesse stime del ministero mostrano come in media il Roe, uno dei principali indici di redditività, per il settore autostradale italiano è stato dell’11,3%, con utili netti pari al 36,6% dei ricavi. Il ministero usa anche un criterio aggiuntivo per quantificare la ricchezza prodotta da una concessionaria e misurare a chi finisce quella ricchezza: lo ha chiamato Vaid, sigla che sta per “Valore aggiunto integrato distribuibile”. In media le 25 concessionarie italiane hanno prodotto 250,5 milioni di euro di Vaid l’una nel 2016, a beneficio soprattutto dello Stato (35,4%), dell’impresa stessa (31%), dei dipendenti (15,6%), dei finanziatori (11%) e degli azionisti (7%).
Ci sono alcune società in cui la ripartizione dei guadagni è molto sbilanciata a favore degli azionisti. È il caso di Satap, del gruppo Gavio, o del Traforo del Monte Bianco: entrambi hanno fatto arrivare agli azionisti un quinto della ricchezza prodotta. Ma è soprattutto il caso di Autostrade per l’Italia, dove gli azionisti si sono presi il 31% della ricchezza prodotta, lasciando soltanto l’1% all’azienda.
Il caso Autostrade per l'Italia
La più grande concessionaria autostradale italiana era storicamente una società pubblica. È stata privatizzata nel 1999, negli anni delle grandi privatizzazioni, quelli che hanno visto passare ai privati società come Enel (in parte) e Telecom (per intero). Allora, la finanziaria statale Iri controllava l’86,6% delle azioni di Autostrade, mentre aveva collocato in Borsa il 13,4%. Il governo dell’epoca è guidato da Massimo D’Alema, che ha come ministri dell’Economia prima Carlo Azeglio Ciampi (fino al 13 maggio del 1999) e poi Giuliano Amato.
Il progetto per Autostrade è incassare 13mila miliardi di lire (6,7 miliardi di euro) con la vendita della quota dell’Iri, ma creando le condizioni perché l’azienda abbia un nocciolo duro di investitori con il 30% delle azioni e non sia totalmente in balìa del mercato. Per quel 30% non si fanno avanti in molti. L’offerta che vince è comunque quella della cordata Schema28, che paga poco meno di 5mila miliardi: al centro ci sono i Benetton, che avranno il 18% delle azioni di Autostrade, poi Fondazione Cassa di Risparmio di Torino (4%), Autopistas (3,85%), Ina (2%), UniCredit (2%) e la portoghese Brisa (0,5%).
Dopo tre anni, nel 2003, la cordata lancia un’Opa, in gran parte a debito, e con 6,45 miliardi di euro prende il controllo dell’intera azienda. Dopodiché scorpora le attività in concessione creando una nuova Autostrade Spa, che dal 2007 viene ribattezzata Atlantia. Oggi Atlantia controlla l’88% di Autostrade per l’Italia, dopo averne venduto il 12% per 1,7 miliardi a dei fondi esteri nel 2017. Le autostrade italiane sono la principale azienda del gruppo, che controlla anche autostrade in Cile, Brasile e Polonia, l’aeroporto di Fiumicino e Telepass. Il 30,2% di Atlantia è di Sintonia, finanziaria lussemburghese di Edizione, la holding della famiglia Benetton che controlla anche Autogrill oltre ai negozi di famiglia. Tra i principali soci di Atlantia ci sono il fondo sovrano di Singapore e la banca d’affari Blackrock, oltre alla Fondazione Cassa di Risparmio di Torino.
I soldi di Autostrade
Autostrade per l’Italia è una macchina da utili per Atlantia e, a ricaduta, per i Benetton. L’Ansa ha ripreso i bilanci 2013-2017: in cinque anni l’azienda ha fatto 4,05 miliardi di utili, distribuendone il 93% (3,75 miliardi) agli azionisti. Nello stesso periodo ha speso per la manutenzione solo 2,1 miliardi. Se ai 3,7 miliardi di utili si sommano gli 1,1 miliardi di euro di riserve che la società ha trasferito ai soci, l’incasso per i proprietari sale a 4,8 miliardi di euro in cinque anni. Se si guarda ai soli Benetton, nel 2017 Sintonia ha incassato 274,8 milioni di euro di dividendi da Atlantia, dopo i 230 del 2016, i 267 del 2015 e i 280 del 204. Nonostante la generosità verso gli azionisti, Atlantia è comunque abbastanza ricca da riuscire a finanziare un’operazione enorme come l’acquisizione della rivale spagnola Abertis assieme ai tedeschi di Hocthief: un acquisto da 18,2 miliardi di euro in cui l’esborso per gli italiani è di circa 7 miliardi. Assieme ad Abertis, Atlantia porta a 14mila i chilometri di strade a pedaggio che gestisce nel mondo, cifra che ne fa il maggiore operatore mondiale del settore.