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L'esempio. Quegli spari per zittire il prete anticamorra. Ma don Peppe parla ancora

Antonio Maria Mira lunedì 18 marzo 2024

Un ritratto giovanile di don Peppe Diana

“A me non importa sapere chi è Dio. Mi importa sapere da che parte sta”. Parole provocatorie quelle di don Peppe Diana, durante un funerale, uno dei tanti, troppi, che doveva celebrare in quella terra insanguinata dalla violenza camorrista. Dio era sicuramente al suo fianco alle 7,25 del 19 marzo 1994, mentre nella sua parrocchia di San Nicola stava per celebrare la Messa. Era il suo onomastico e gli amici gli avevano dato appuntamento più tardi per festeggiarlo. “Chi è don Peppe?”, una voce interrompe i suoi pensieri mentre, con gli abiti liturgici, percorre il corridoio che dalla sagrestia porta in chiesa. “Sono io”. Una risposta che ricorda quella di don Pino Puglisi, “vi aspettavo”. Poi cinque colpi di pistola, tutti al volto, come a voler far tacere ancor di più chi con coraggio tre anni prima aveva gridato contro la camorra “per amore del mio popolo non tacerò”. Aveva 36 anni e dal 1989 era parroco a Casal di Principe, il suo paese. Impegnatissimo coi giovani, era capo scout dell’Agesci, poi assistente dell’associazione e responsabile regionale dei “Foulard blanc”, gli scout in servizio nei pellegrinaggi a Lourdes.

Vicino concretamente alle persone più fragili, ai disabili, agli immigrati. Sacerdote fin nel più profondo non aveva paura di esporsi e di pronunciare il nome “camorra” e di accusare. Lo faceva in pubblico e negli articoli che pubblicava sul mensile “Lo Spettro”. E le sue denunce non facevano sconti a nessuno entrando nel merito di questioni fondamentali. “La camorra – denunciava don Peppe – chiama “famiglia” un clan organizzato per scopi delittuosi, in cui è legge la fedeltà assoluta, è esclusa qualunque espressione di autonomia, è considerata tradimento, degno di morte, non solo la defezione, ma anche la conversione all’onestà. La camorra usa tutti i mezzi per estendere e consolidare tale tipo di “famiglia”, strumentalizzando perfino i sacramenti. La camorra pretende di avere una sua religiosità, riuscendo, a volte, a ingannare, oltre che i fedeli, anche sprovveduti o ingenui pastori di anime”. Parole che evocavano, rafforzandole, quelle del “Documento contro il fenomeno della camorra” del luglio 1982 della Conferenza Episcopale Campana. Documento che nella prima pagina aveva già quella citazione di Isaia, “Per amore del mio popolo, non tacerò” che diventò il titolo, nel Natale 1991, di quello di don Peppe e degli altri parroci della Forania di Casal di Principe.

Un piccolo scout davanti alla tomba di don Peppe Diana - Felice De Martino/Ansa

Il 21 luglio a San Cipriano d’Aversa nel corso di una sparatoria tra gruppi camorristi viene ucciso il ventenne Angelo Riccardo, muratore e Testimone di Geova. Colpito per caso mentre transita in auto. Don Peppe non sta in silenzio. E domenica fuori dalle chiese di Casal di Principe e San Cipriano d’Aversa viene distribuito un durissimo volantino dal titolo “Basta con la dittatura armata della camorra”. A firmarlo sono le comunità parrocchiali di San Nicola e Santa Croce, la comunità “La Roccia” e il mensile “Lo Spettro”. A Natale il famoso documento dei parroci della Forania. Due paginette che hanno fatto paura alla camorra, che hanno segnato la vita e la morte di una persona, di un sacerdote, ma anche di tante altre persone di questa terra. “La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana”. Poi un netto passaggio sulla politica. “È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi”. Non meno chiare sono le parole rivolte alla comunità ecclesiale. “Le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili”. E le richieste sono precise.

Una delle manifestazioni in ricordo di don Peppe Diana promossa nel tempo da Libera - .

Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia e dell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili… Il fenomeno della camorra ci interroga in maniera perentoria sul nostro modo di essere Chiesa; oggi, in Campania, ci sfida ad essere una vera contrapposizione, un’autentica proposta di civiltà, ad essere non solo credenti, ma credibili”. Le stesse parole trovate nell’agenda del giudice Rosario Livatino, ucciso dalla mafia quattro anni prima. Denuncia e analisi delle cause, nelle parole di don Peppe. “Bisogna risalire alle cause della camorra per sanare la radice che è marcia - rispondeva in un’intervista a “Lo Spettro” del gennaio 1992 -. Una Chiesa diversamente impegnata su questo fronte potrebbe fare molto. Dovremmo testimoniare di più una Chiesa di servizio ai poveri, agli ultimi, dove regnano povertà, emarginazione, disoccupazione e disagio è facile che la mala pianta della camorra nasca e si sviluppi”. E ancora: “Come pastori ci sentiamo le sentinelle del gregge e, se non sempre siamo stati vigili e attenti, stavolta il coraggio della profezia e la coscienza profonda di essere “lievito nella pasta” ci impongono di non tacere”. Pochi giorni prima di essere ucciso lanciava un forte appello: “Se la camorra ha assassinato il nostro paese, “noi” lo si deve far risorgere, bisogna risalire sui tetti a riannunciare la “Parola di Vita””.

Parole che i boss non potevano accettare. Don Peppe doveva morire “come esempio”. Dopo calunnie e fango, i processi hanno confermato la responsabilità della camorra. Determinante la testimonianza del fotografo Augusto Di Meo amico di don Peppe. Era andato in parrocchia per fargli gli auguri e dargli l’appuntamento per offrirgli la colazione. Mentre usciva vide tutto, andò dai carabinieri e raccontò tutto. Una scelta immediata pagata pesantemente, con anni di paura e di emarginazione. Oltretutto non ha ancora il riconoscimento ufficiale di testimone di giustizia. Il cammino è continuato, coi ragazzi di don Peppe, le sue idee. La storia in questa terra sta davvero cambiando, grazie a convinti “partigiani del bene”, come ha più volte riconosciuto Federico Cafiero de Raho, ex procuratore nazionale antimafia e il primo magistrato ad accorrere quel 19 marzo. “È come se quei territori avessero avuto bisogno della morte di un uomo buono per risvegliarsi. Casal di Principe si sta riprendendo la sua dignità come se la gente cominciasse a riflettere sul cambiamento. Don Peppe, quella lucina, è poi diventata un riflettore”. Certo la lotta è ancora lunga. Ma ormai queste non sono più le terre di gomorra ma quella di don Peppe Diana. E la cappellina dove don Peppe è sepolto è meta ogni giorno di gruppi e singoli, vengono a incontrarlo perché davvero è ancora vivo. Così come lo incontrano nel luogo dell’uccisione in parrocchia, dove cartelloni e fotografie ricordano le sue parole e il suo impegno.