Covid-19. Cav Mangiagalli di Milano, le storie di chi ha salvato vite pure nel lockdown
Non li ha fermati neppure il Covid. Non se lo potevano permettere: «Immaginate la paura di una donna che si scopre incinta e cade nel baratro della solitudine, il marito o il compagno la lascia proprio a causa di quel figlio indesiderato, la famiglia quando c’è la abbandona, non ha lavoro, non ha casa, chi la circonda le consiglia di interrompere la gravidanza perché altra possibilità (le dicono) non c’è. Se a tutto questo si aggiunge lo spettro del Covid, è facile capire come stavano le ragazze che in questi primi mesi del 2020 si sono affacciate al nostro Cav per chiedere aiuto… No, non ci siamo mai fermati».
Soemia Sibillo è la nuova direttrice del Centro di Aiuto alla vita della clinica Mangiagalli di Milano, la donna che ha raccolto due sfide tanto preziose quanto impegnative, portare avanti il testimone di Paola Chiara Bonzi, fondatrice (36 anni fa) del Cav Mangiagalli, scomparsa improvvisamente il 9 agosto dello scorso anno, e prendere le redini del primo Cav nato in un ospedale pubblico dopo il varo della legge 194 del 1978 ("Tutela sociale della maternità e interruzione volontaria della gravidanza").
E un anno senza Paola Bonzi, donna rivoluzionaria e fuori dal comune, è l’occasione per fare il punto dopo mesi difficili. «Paola ci ha lasciato una responsabilità bellissima ma anche impegnativa, che richiede grandi professionalità. Le abbiamo messe in campo subito innanzi all’emergenza Covid. Nonostante l’impossibilità di incontrare fisicamente le madri, la reperibilità telefonica è stata continua e i nostri volontari hanno portato a domicilio le borse della spesa, medicinali, pannolini, corredini, prodotti per l’igiene dei bimbi, persino passeggini, marsupi e carrozzine». Risultato: nessuna delle donne è rimasta senza risposte, e nei terribili otto mesi che ci siamo lasciati alle spalle al Cav hanno fatto nascere 513 bambini che altrimenti oggi non sarebbero al mondo.
Le madri che bussano a un Centro di Aiuto alla vita sono nel periodo di massima fragilità. Sul crinale tra la scelta di abortire – resa più facile, sulla carta, dalla Ru486 su cui arriva ora un nuovo via libera da parte del governo – e quella di accogliere una vita. «Sono nelle prime settimane della gravidanza e se vengono da noi è perché pensano di dover abortire ma il dubbio le tormenta, hanno in mano il certificato di aborto ma cercano qualcuno che dia loro un’alternativa. Vogliono sentirsi dire che c’è un modo per non dover rinunciare alla “maternità indesiderata”, come viene chiamata, ma indesiderata da chi? Dal partner, dai genitori, dalla società, da chi vede in quel figlio un problema da rimuovere e il più in fretta possibile» continua Sibillo.
Quasi sempre è sufficiente dar loro quello che Paola Bonzi chiamava “ascolto attivo”, assicurare che non saranno sole, che passo passo saranno seguite durante tutta la gravidanza e fino al compimento di un anno del bambino, perché cambino idea. La legge 194, d’altronde, prevede proprio che ogni donna abbia un colloquio con gli operatori per valutare le difficoltà che l’hanno spinta a una “scelta” tanto drammatica: «In realtà vediamo ogni giorno che la libertà di scelta viene loro negata, le difficoltà economiche o psicologiche non vengono rimosse e il famoso colloquio spesso resta sulla carta. Sveltire ulteriormente la pratica con una pillola ingoiata in solitudine è davvero un aiuto alla donna? L’esperienza ci dice il contrario. Basti dire che solo nel nostro Cav dalla sua fondazione a oggi sono nati oltre 23.500 bimbi».
L’identikit delle ragazze che chiedono aiuto, a Milano, è cambiato. Se in passato erano soprattutto straniere, negli ultimi anni sono aumentate le donne italiane, in particolare tra i 20 e i 28 anni. «Ce lo spieghiamo con la crisi economica, ma ancor più con la crisi della famiglia: se per le straniere l’ostacolo è soprattutto di natura economica, per le giovani italiane il problema è più di fragilità emotive e solitudini nascoste, legate alla caduta dei valori familiari e della rete sociale. Sono circondate da una società che anziché accogliere la maternità le instrada subito verso l’interruzione della gravidanza e la morte del bambino. Noi le vediamo spaventate, ma quando assicuriamo la nostra presenza per tutte le pratiche, le visite mediche, il supporto psicologico, il periodo dell’allattamento, vediamo che gli sguardi cambiano».
Nel cuore del Cav resta la storia di Valentina: 32 anni, due figli e un marito che non vuole il terzo figlio perché non ha un lavoro fisso e ha accumulato due anni di rate di affitto da pagare. Valentina è così disperata che chiede consiglio alla figlia 12enne se debba tenere o meno quel fratellino, senza rendersi conto del carico pesantissimo che sta riversando sulla bambina. «Ha già in borsa la data dell’aborto e dovrà prendere una decisione, ma mentre esce dal Cav incontra una nostra mamma con in braccio il figlio di tre mesi…». Una settimana fa è nato Riccardo e, grazie a un benefattore abbiamo anche saldato i due anni di affitto di suo padre. «Come ripeteva Paola, un bambino non nato non interroga solo la mamma, non è un fatto privato, interroga ciascuno di noi».