Mai guariti. Prigionieri del Covid. Ecco chi li cura (e come)
Due pazienti guariti dal Covid seguono un programma di riabilitazione nell'ospedale di Cassano d'Adda
«Mi chiamo Federico, scrivo da Palermo. Sono risultato positivo al Covid il 17 novembre, mi sono negativizzato ai primi di dicembre. Qualche linea di febbre, dolori muscolari, non è stato necessario il ricovero. Eppure da allora non riesco più a vivere, a lavorare». Cambiano nomi, date e città (alcune sono anche straniere), ma la richiesta si ripete sempre uguale. Settecento volte nel giro di sei mesi soltanto alla casella di posta del Day hospital post Covid del Policlinico Gemelli di Roma, da dove è partito tutto lo scorso aprile. Tredicimila volte nel gruppo Facebook “Noi che il Covid l’abbiamo sconfitto”, nato sulla scorta delle esperienze vissute in prima persona da chi ce l’ha fatta, sì, ma non è mai guarito. Decina di migliaia di volte nelle caselle postali delle associazioni e dei gruppi creati in tutto il mondo – non solo in Italia – per raccogliere racconti e testimonianze sempre più numerose.
Non finisce, in molti casi, il Covid. E al Gemelli, oltre a toccare con mano il problema, sono stati anche i primi al mondo a misurarlo: otto persone su dieci che l’hanno incontrato – questi i conti pubblicati a giugno su Jama e confermati in questi giorni da uno studio più ampio dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo – ne portano un segno. Per la metà di loro, quel segno è diventato invalidante. E la base di partenza, per queste percentuali, sono quasi due milioni di contagiati da inizio epidemia soltanto in Italia. Non importa che siano stati un mese in terapia intensiva o un giorno all’ambulatorio attrezzato vicino a casa: se esistesse un minimo comune denominatore (e soprattutto se il Sars-Cov-2 non fosse nato da poco più di un anno) sarebbe tutto più facile. «Invece non lo è – alza le mani il responsabile della struttura, Francesco Landi, che dirige l’Unità di riabilitazione e Medicina fisica dell’ospedale e insegna Medicina interna e Geriatria all’Università Cattolica –. Abbiamo dovuto imparare tutto di questo virus, e quando si è rivelato per quello che è, tutt’altro che una banale influenza o una polmonite ma una malattia multiorgano, abbiamo anche capito che serviva un percorso di cura e di assistenza diverso». Quale, è lo sforzo quotidiano che si misura nella struttura dedicata nata al Gemelli e in decine di altre da Nord a Sud.
Niente come prima
La letteratura scientifica l’ha ribattezzato “Long Covid”: senso di spossamento perenne, disorientamento, incapacità di concentrarsi per più di quindici o venti minuti leggendo un libro, o lavorando al pc. E ancora: gusto e olfatto che spariscono, sì, ma che non tornano per mesi, dolori muscolari diffusi, ansia e insonnia, difficoltà a deambulare, ad alimentarsi persino, dermatiti persistenti, alopecia. Per non parlare delle complicazioni più serie, spesso improvvise, tra cui spiccano problemi respiratori, cardiocircolatori e anche pesanti depressioni, con le caratteristiche dello stress post-traumatico. La lista pare infinita (e infinitamente varia), il risultato per la stragrande maggioranza dei “sopravvissuti” è decisivo: «Non riescono a tornare a fare la vita di prima» riassume il professor Paolo Bonfanti, in prima linea sul fronte di Covid e Long Covid all’ospedale San Gerardo di Monza, alle porte di Milano. Anche qui la lista d’attesa dei mai guariti si allunga oltre il centinaio e oltre 300 sono già i pazienti visitati al Day Hospital, che funziona come quello del Gemelli: approccio integrato, una giornata intera passata tra cardiologo, pneumologo, infettivologo, ematologo, geriatra e psicologo, che poi si riuniscono tra loro e sulla base dei risultati dei diversi esami valutano la situazione del paziente e il suo percorso di riabilitazione.
«Di fatto mettiamo a disposizione di queste persone tutte le competenze e le professionalità di un ospedale in un solo giorno – continua Bonfanti –. Il tentativo è quello di arrivare a una diagnosi il più possibile sfaccettata e completa». Un’impresa titanica, spesso portata avanti a corrente alternata rispetto alle ondate dell’epidemia (perché negli ospedali del nostro Paese chi lavora sul fronte dell’emergenza è anche chi si occupa del post-emergenza) e totalmente a carico del Servizio sanitario nazionale grazie alla neonata “esenzione post-Covid”, che in Lombardia è già stata estesa anche per tutto il 2021 «ma che è necessario diventi misura nazionale – spiega dal Gemelli Landi, secondo cui i fondi a disposizione della Sanità nel Recovery Plan dovrebbero essere indirizzati soprattutto su questa nuova sfida – che sono convinto ci impegnerà nei prossimi mesi e forse nei prossimi anni ben più del Covid». Al Long Covid, infatti, servono braccia: percorsi di rieducazione posturale e respiratoria, cicli di terapie fisiche e psicologiche, disponibilità h24 per le eventuali riacutizzazioni, controlli continui.
Le risposte che mancano
Ma perché, a differenza della quasi totalità delle malattie infettive, il Covid dimostra così tanta “cattiveria” nel tempo? I centri di riabilitazione sono anche le sentinelle di quella che è una branca della ricerca tutta ancora da costruire: «Condividendo le cartelle cliniche e il decorso dei pazienti che abbiamo valutato a livello internazionale stiamo facendo numerose ipotesi – continua Bonfanti –. C’è una predisposizione genetica, per esempio, a sviluppare sintomi più gravi e prolungati: ne stiamo approfondendo gli aspetti». Età e sesso non sembrano invece comportare differenze sostanziali (anche se tra i pazienti più gravi, che più facilmente necessitano anche di percorsi di riabilitazione, ci sono soprattutto gli uomini): «Non abbiamo insomma ancora elementi a sufficienza per evidenziare dei fattori prognostici del Long Covid – aggiunge Landi –. Qui al Gemelli, dove abbiamo visitato oltre 700 pazienti dallo scorso aprile, ci siamo accorti per esempio che non c’è una fascia anagrafica più rappresentata di un’altra: i sintomi possono essere molto invalidanti a qualsiasi età, e non solo nei pazienti che hanno avuto sintomi più gravi degli altri o che sono stati ricoverati».
Altro nodo ancora da sciogliere, dopo quanto (e se) si guarisce: «È anche quello che ci chiedono tutte le persone che incontriamo – spiega ancora Landi – e su questo punto cerchiamo di essere sinceri: non lo sappiamo. Non abbiamo il tempo dalla nostra parte, non abbiamo pazienti che hanno avuto il Covid dieci o cinque anni fa e che oggi ci permettono di illustrare il possibile decorso di questa sindrome. Dobbiamo però lavorare tutti, sia noi medici sia chi la Sanità la programma e la organizza per il futuro – è l’appello del medico – nell’ottica di una prospettiva di guarigione, che merita attenzione e investimenti. Questi pazienti esistono ed esisteranno nel futuro: ci chiedono percorsi assistenziali dedicati e specializzati». Se saranno creati per tempo l’Italia non si troverà, finita l’emergenza Covid, a scalare la montagna delle sue macerie.