Sentenza. «Nuovo sesso all'anagrafe. Senza chirurgia»
Non è la prima sentenza di questo tipo, ma è la prima volta che in materia si esprime la Cassazione. La Suprema Corte ha stabilito che per cambiare sesso all’anagrafe non è più indispensabile un’operazione chirurgica di adeguamento della propria anatomia al sesso percepito come proprio e che si chiede di poter registrare all’anagrafe. Si chiama «disforia di genere» ed è un disturbo dell’identità che porta a considerare il sesso di nascita come inadeguato e talora insopportabile, col desiderio insopprimibile di modificarlo. Sino a pochi mesi fa una giurisprudenza concorde aveva posto come logica condizione al cambiamento di sesso l’adeguamento anatomico per poter ottenere la «rettificazione» prevista già dalla legge 164 del 1982, precisata poi dal decreto legislativo 150 del 2011, che alla condizione dell’intervento chirurgico aveva premesso l’espressione «quando risulta necessario». I tribunali a questo punto hanno iniziato a dividersi, a volte continuando a respingere le richieste di rettificazione, ma anche accogliendo l’istanza. Il caso forse più noto sinora è accaduto a novembre dell’anno scorso, quando il Tribunale di Messina ha accolto la richiesta di un giovane che senza passare per una «riattribuzione chirurgica del sesso» chiedeva di diventare donna. Casi analoghi si erano registrati già a Roma (1997 e 2011), Rovereto e Siena (2013). A confermare questo nuovo orientamento dei tribunali è ora la Cassazione, che ha riconosciuto il diritto di un uomo di 45 anni di farsi registrare come donna, cioè secondo il sesso che dichiara essere il suo sia psicologicamente che socialmente da 25 anni. Ad appoggiare le istanze del ricorrente la «Rete Lenford-Avvocatura per i diritti Lgbt», un intervento che segna una fase nuova per queste cause: da questioni personali, da trattare con tutta l’attenzione, il rispetto e il tatto indispensabili, a vessillo per la rivendicazione di un presunto diritto a dichiarare e scegliere il proprio genere. Nel caso di Messina, il vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica Lorenzo D’Avack aveva sottolineato che la riassegnazione chirurgica – come dispone la legge vigente – non sia necessaria, ma solo nel caso in cui «rigorose relazioni tecnico-scientifiche di periti nominati dal tribunale mostrano in modo inequivoco che interventi con farmaci o bisturi non sono indispensabili, e anzi potrebbero compromettere la salute della persona». La stessa Maria Grazia Sangalli, presidente di Rete Lenford, l’associazione che ha seguito il caso in Cassazione – dopo che Tribunale di Piacenza e Corte d’Appello di Bologna avevano respinto i ricorsi –, spiega che «in molti casi le terapie ormonali e gli interventi sui caratteri sessuali secondari garantiscono alla persona di raggiungere il proprio equilibrio e di fissare la propria identità di genere a prescindere dalla modificazione chirurgica dei caratteri sessuali primari, che comporta interventi dolorosi, invasivi e con conseguenze negative in un’alta percentuale di casi». Il fatto che i primi casi giudiziari si siano verificati anni fa senza suscitare il clamore che invece provocano oggi sta a dire due cose: che si sta perdendo il doveroso rispetto col quale trattare anche mediaticamente casi simili, privati e comprensibilmente assai delicati; e che col dibattito sul gender in pieno svolgimento anche una vicenda delicata come quella di cui si è occupata la Cassazione rischia di finire nel tritacarne della propaganda. Dove però non dovrebbe mai entrare.