Lecco. Sanità lombarda, risarcimento al papà di Eluana Englaro. Lo stupore dei giuristi
La casa di cura di Lecco in cui è stata assistita Eluana
La vicenda processuale sul tragico caso di Eluana Englaro non è ancora conclusa. Al vasto dossier di sentenze che si sono succedute negli anni dall’incidente nel 1992 alla morte della giovane in stato vegetativo, il 9 febbraio 2009 nella clinica “La Quiete” di Udine dopo un lungo ricovero presso la struttura delle suore Misericordine a Lecco, si aggiunge ora il verdetto col quale la Corte dei Conti chiede all’allora direttore generale della Sanità in Regione Lombardia Carlo Lucchina di risarcire l’erario dei 175mila euro che la Regione dovette pagare a Beppino Englaro, papà di Eluana, a titolo di rimborso per i danni subiti e le spese sostenute per non aver potuto “terminare” la figlia in una struttura sanitaria lombarda.
La successione dei fatti è nota, e ancora dolorosa. Alla sentenza decisiva della Cassazione che nel 2007 autorizzava l’interruzione delle cure inclusi i trattamenti di sostegno vitale, come la nutrizione e l’idratazione, era seguito l’anno dopo il via libera della Corte d’Appello al distacco dei supporti di base.
Ma la Regione Lombardia per disposizione di Lucchina si era opposta al fatto che in Lombardia si potesse dare la morte a una disabile grave, ricordando che i sanitari che l’avessero fatto sarebbero «venuti meno ai loro obblighi professionali». Un atto formale che obbligò Beppino Englaro a cercare fuori regione una struttura disponibile a sospendere i sostegni vitali (Eluana non aveva bisogno di altro per vivere che di essere nutrita e idratata, come milioni di non autosufficienti). Di qui il braccio di ferro economico, con una prima sentenza di assoluzione e una seconda di condanna, che ora presenta il salatissimo conto a Lucchina. E a tutta una visione di un caso paradigmatico del modo in cui si vede la vita, la cura e la morte.
Al di là del merito, sono le motivazioni dei magistrati contabili che danno da riflettere: a guidare Lucchina infatti sarebbe stata una «concezione personale ed etica del diritto alla salute», «frutto di una personale e autoritativa interpretazione del diritto alla vita e alla salute».
Parole che a sinistra evocano la necessità di una legge sull’eutanasia: «A distanza di molto tempo è scandaloso che l'Italia non abbia una legge sul fine vita», dice Luana Zanella, capogruppo alla Camera di Alleanza Verdi e Sinistra, che però dimentica la legge 217 del 2019 sulle disposizioni anticipate di trattamento, che recepì quanto accadde a Eluana e, nel 2017, a dj Fabo.
Di «segnale allarmante» e di «pericolosa deriva che scoraggia la cura dei malati gravi» parla invece la vicecapogruppo di Fdi a Montecitorio Augusta Montaruli. Da Palazzo Lombardia reagisce indignato Matteo Forte, presidente della II Commissione Affari istituzionali ed Enti locali del Consiglio regionale della Lombardia: «Stupisce che non si siano affrontate le questioni giuridiche di merito che portarono a quella legittima scelta di Regione Lombardia, ma si è inteso invece giudicare la coscienza personale» di «uno dei migliori dirigenti che il sistema sanitario regionale abbia mai avuto, che allora come sempre non si è mosso per convinzioni personali, ma forte del parere dell'Avvocatura regionale». Forte ricorda la «situazione senza precedenti», con la Cassazione che si era appellata «alla controversa ricostruzione postuma della volontà della donna sulla base dello stile di vita precedente alla condizione di disabilità in cui si era venuta a trovare, e in totale assenza di una normativa specifica di riferimento». Gli esperti di biodiritto non sono meno interdetti.
Domenico Menorello, giurista, componente del Comitato nazionale per la Bioetica e coordinatore della rete di associazioni “Ditelo sui tetti” per la dignità della vita, è colpito dal paradosso: «Lucchina, assolto in primo grado, viene ora condannato per avere applicato la normativa (leggi e statuti) che orienta il Servizio sanitario nazionale alla cura della persona in un tempo in cui comunque non era stata nemmeno approvata la legge sul fine vita e la Corte costituzionale non si era ancora pronunciata sulla limitata non punibilità dell’assistenza al suicidio. Ciò che è ancor più grave è la considerazione per cui egli avrebbe operato in quanto cattolico», la “concezione personale” evocata dalla sentenza.
«Mi auguro – conclude Menorello –, al di là delle diverse opinioni, tutto il mondo cattolico così come tutto il mondo autenticamente liberale rifiuti questo pregiudizio, che espone ogni credente a un pubblico sospetto discriminatorio, secondo cui i cattolici sarebbero portati ad agire secondo una implicita coscienza difforme dalle leggi dello Stato». Di «condanna paradossale» parla Giovanna Razzano, costituzionalista della Sapienza, anche lei componente del Cnb: «La Cassazione autorizzò il tutore e non un medico o una struttura sanitaria a distaccare il sondino. Come dare torto e addirittura condannare per danno erariale chi, in questa ingarbugliata vicenda, ha fatto proprio il principio di precauzione, in specie quello in dubio pro vita, che accompagna da sempre l’esperienza umana, etica e giuridica?». La conclusione interviene sull’ipotesi di una nuova legge: «Per la Costituzione, dal diritto alla vita, primo dei diritti inviolabili dell’uomo, discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire».
L'intervento
Gambino: così si trasforma il diritto alla cure in diritto a interrompere la propria esistenza
«La condanna al risarcimento è l’epilogo di una vicenda giudiziaria che ha trasformato un diritto alla cura in un diritto all’interruzione della propria esistenza con il sostegno del Servizio sanitario, snaturandone la missione». È netto il giudizio di Alberto Gambino, presidente nazionale del Centro studi Scienza & Vita (da pochi giorni erede dell’Associazione, che tanto si batté per salvare Eluana Englaro) sulla sentenza che ha condannato Carlo Lucchina sul caso Englaro. Docente di Diritto privato all’Università Europea di Roma e membro del Comitato nazionale per la Bioetica, Gambino invita a considerare i possibili effetti del pronunciamento della Corte dei Conti, di cui peraltro si è avuto sentore nelle prime dichiarazioni di esponenti del fronte politico che sostiene da tempo la legalizzazione del suicidio assistito: «Non vorremmo – afferma Gambino – che tale fallace deriva fosse il preludio a una stagione di chiara matrice efficentista che, in nome del simulacro dell’autodeterminazione, nasconda intenti di scelte sanitarie volte al risparmio anche rispetto ai pazienti più fragili e vulnerabili e, in definitiva, più “costosi”.
Non è questa però la prospettiva della Corte Costituzionale che, pur recentemente aprendo al suicidio assistito, ha statuito che non esiste alcun obbligo per i medici e, dunque, del Servizio sanitario, di assecondare la scelta suicidaria del paziente». Proprio in materia di scelte di fine vita la Consulta è chiamata a pronunciarsi a giorni: il 19 giugno i giudici dovranno esaminare la questione di costituzionalità sollevata dal gip di Firenze nel procedimento che vede indagati alcuni esponenti radicali, tra i quali Marco Cappato, che nel 2022 si autodenunciarono per aver accompagnato a morire in Svizzera un 44enne malato di sclerosi multipla non dipendente da trattamenti di sostegno vitale e che dunque non rientrava nei criteri fissati dalla Corte sul caso Fabo-Cappato per il suicidio medicalmente assistito.
Un’applicazione estensiva dei paletti stabiliti con la sentenza precedente introdurrebbe quel “diritto di morire” che la Consulta ha sinora escluso e per il quale si batterono i sostenitori della morte procurata di Eluana. Un intreccio che viene ora illuminato dalla sentenza della Corte dei Conti: «Confidiamo che anche la giustizia amministrativa – conclude Gambino –, opaca nel caso Englaro, si attesti nel pieno dettame costituzionale della missione solidaristica e non esiziale della sanità italiana».