La stanza di Marta ha le pareti color arancione, gli orsetti appoggiati sul letto e un po’ di giocattoli sparsi sul pavimento. In un angolo c’è un lettino dove vive Giulia, due anni e mezzo, sua figlia. Non ci sono sbarre, eppure siamo in carcere, all’Icam di Milano, l’istituto di custodia attenuata per le madri detenute con figli fino a 3 anni. Un posto unico nel suo genere, dove queste donne scontano la pena o vengono rinchiuse in attesa di giudizio. Nell’Italia dell’emergenza permanente, delle carceri sovraffollate e di migliaia di detenuti dimenticati, innanzitutto dalla politica, ecco una storia che merita di essere raccontata perché va controcorrente. «Più che un carcere, sembra una casa famiglia» ammette l’ispettore Stefania Conte, responsabile della struttura per conto dell’amministrazione penitenziaria, mentre ci guida nella visita degli spazi all’interno di una palazzina di proprietà della Provincia di Milano. Lo si vede dalla disposizione delle camere, curate e in ordine, dalla presenza di una biblioteca e di una sala tv, dalla cucina dove una mamma sta preparando il pranzo per le altre detenute. Ogni spazio è pensato per rispondere a un preciso compito e il coinvolgimento di educatori e volontari 24 ore su 24 lo dimostra. Poi ci sono loro: i bambini. Che si svegliano con le loro mamme, escono per andare all’asilo nido della zona, tornano nel pomeriggio e si addormentano come fossero a casa. «Prima di creare questa struttura – racconta l’ispettore Conte – esisteva un nido nel carcere di san Vittore. Si trovava al primo piano, nella zona delle detenute tossicodipendenti. L’abbiamo chiuso quando abbiamo capito che in quella struttura tutto, dal rumore sordo delle chiavi al grigio delle mura, ricordava anche ai più piccoli che ci si trovava in una prigione». Che conseguenze può avere, fin da piccolissimi, dover crescere dietro le sbarre? È un problema che da tempo interroga le istituzioni, compreso il Tribunale dei minori, gli enti locali e le associazioni che si occupano di diritti dei detenuti. Le conseguenze della forzata reclusione sulla popolazione infantile non vanno nascoste e l’Icam in questo senso è una risposta che tiene insieme le esigenze di custodia riservate alle madri con il bisogno di garantire un’infanzia serena ai bambini. «Qui cerchiamo di ricostruire una persona, a partire dalla richiesta di una presa di consapevolezza di quanto è stato commesso». La struttura ha ospitato in tutto 130 persone in 3 anni, con un massimo di 16 persone contemporaneamente. Delle 3mila detenute rinchiuse nei carceri d’Italia, infatti, sono meno di 100 quelle che hanno i requisiti per entrare qui. E chi ci arriva sa di godere di un privilegio. «Là dentro sei in cella, in uno spazio piccolo con altre donne» racconta Bruna, mentre la figlia le gira intorno. Bruna sta studiando per prendere il diploma di terza media e poter tornare a lavorare, magari come barista. «Intanto, con i corsi che mi fanno fare, ho imparato a fare i dolci». I percorsi di recupero in realtà non sono semplici da affrontare. Prima di tutto perché sempre di una struttura penitenziaria si tratta, sia pure con agenti che girano in borghese. «Gestire la sicurezza è il compito prevalente nelle carceri normali, mentre qui è possibile fare un passo in più, sulla via del trattamento e del reinserimento» fa notare Conte. È una versione della sicurezza dal volto umano, possibile solo in queste condizioni. «All’inizio far rispettare le regole, anche qua dentro, è stato molto faticoso. Poi molte di loro hanno capito che l’impegno in prima persona per ritornare se stesse paga, anche fuori dall’istituto». Non per tutte, infatti, l’uscita coincide con la messa in libertà definitiva. Per alcune si apre, in caso di buona condotta, la possibilità delle misure alternative, per altre invece, al compimento del terzo anno d’età da parte del figlio, si va incontro invece a un nuovo strappo: la separazione col bimbo. «È un passaggio che affrontiamo per tempo, anche grazie alla presenza di psicologi – spiega l’ispettore Conte –. Alla detenuta non viene nascosto nulla». La normalità qui dentro è il lavoro: su se stessa, innanzitutto, poi sulla relazione con gli altri, dalle compagne alle autorità. «Neppure il bambino può diventare l’alibi per non far nulla. A differenza di San Vittore, infatti, l’ozio non è ammesso...».