Il caso. Il giudice Palermo: «La mia verità sull'attentato»
«Non ho mai smesso di cercare la verità, nemmeno per un giorno. Lo devo a chi in un istante ha perso tutto». 2 aprile 1985, 8.35 del mattino. Il sostituto procuratore Carlo Palermo sta percorrendo la strada che lo porta verso il palazzo di giustizia di Trapani. È arrivato da 40 giorni, trasferito su sua richiesta da Trento per proseguire le inchieste del giudice Ciaccio Montalto, ammazzato due anni prima. Lungo il tragitto, a Pizzolungo, lo aspetta un’autobomba. L’autista del giudice la scorge mentre supera una piccola Volkswagen guidata da Barbara Rizzo, 30 anni, che accompagna a scuola i suoi gemellini di 6 anni, Salvatore e Giuseppe Asta. L’esplosione investe in pieno l’utilitaria, che fa da schermo all’auto blindata di Palermo. Per la mamma e i bambini non c’è scampo. Due agenti della scorta restano feriti, il giudice esce dai rottami sotto choc. Ma vivo. Trent’anni dopo, Carlo Palermo è seduto sul divano del suo studio di Trento. Parla lentamente per mettere bene a fuoco una storia che fa ancora male a sentirla e a raccontarla. «Ricordo tutto di quel giorno...Come ricordo uno a uno quei 40 giorni vissuti a Trapani. Impossibile dimenticare la tensione di quei giorni, la rabbia che provavo e quel senso di impotenza: avevo capito che qualcosa stava per succedere. Lo scrissi anche, ma non mi ascoltarono». La voce si incrina, le frasi gli si inceppano in gola. «Fui messo fuori dalla base militare che mi ospitava e costretto a trovarmi una sistemazione a 10 km da Trapani, con tutti i rischi del caso, perché nessuno mi aveva offerto un posto più vicino. Trovai casa a Bonagia: doveva restare segreta, ma iniziò a suonare il telefono appena entravo. Rispondevo e riattaccavano». Palermo scuote la testa, agita le mani. «Era chiaro ciò che si stava preparando. Arrivarono messaggi del tipo: "Facciamo saltare il giudice Palermo e la sua scorta", "il regalo sta per essere consegnato"... Ma lo Stato, proprio nel momento di maggiore necessità, non credette alle minacce e abbandonò me e la scorta, che nemmeno munì di un’auto blindata. Anche dopo l’attentato, quando decisi di tornare a Trapani, nessuno mi indicò un alloggio. Ma presi lo stesso l’aereo. Mi piazzarono dai vigili urbani, in una stanzetta senza bagno». Poi fu trasferito in un appartamento blindato realizzato in fretta nel palazzo di giustizia. L’incubo, però, non era ancora finito: «Minacciarono le mie figlie, perciò accettai il trasferimento al Ministero di Grazia e Giustizia. Ma finii tra le scartoffie. Non era più vita. Così, quando mi dispensarono dal servizio per motivi di salute, detti il mio consenso». Le minacce sono proseguite per anni, ma lui non si è fermato. «Dal 1985 mi porto dentro un enorme senso di colpa, perché altri sono morti al posto mio. Scoprire il perché dell’attentato è diventata la mia ragione di vita. Negli ultimi tempi avevo perso la speranza di riuscirci». Poi l’anno scorso Margherita Asta, sorella dei gemellini (il giorno della strage non era in macchina solo per caso), è passata da Trento. «Mi ha detto: arriva il 30° anniversario, devi esserci. Cerca ancora... Allora ho iniziato a rileggere i vecchi fatti con uno sguardo nuovo. E finalmente credo di aver capito: le tessere del mosaico stanno andando a posto». Il quadro che si va delineando è inquietante. «Per l’attentato sono stati condannati boss mafiosi. Ma non erano i soli a volermi eliminare. Mi ero avvicinato ad alcuni nomi intoccabili e che infatti non sono mai usciti». Il riferimento è a quell’intreccio di affari sporchi scoperchiato nell’inchiesta di Trento. «Dalla Turchia arrivava la droga, che poi finiva in Sicilia e da qui era smistata in Francia e Stati Uniti. Armi e terrori- smo costituivano parti inscindibili di quei patti segreti. La prova, già allora, che la grande criminalità è un fenomeno globale e complesso. I giudici, frenati dal criterio della territorialità, giocano una sfida impari. Servirebbe un reale coordinamento internazionale delle indagini. Altrimenti è impossibile venirne a capo». Lui ci ha provato «ed è finita come è finita». Non solo per l’attentato, ma anche «per la contrapposizione di pezzi dello Stato e la sparizione di documenti». Inquietante quel che accadde nel 1996. «I pm di Torre Annunziata indagavano su un traffico d’armi e personaggi da me inquisiti tanti anni prima: mi chiamarono per testimoniare, li accompagnai a Venezia dove erano custodite le mie carte. Aprimmo l’archivio e la scena fu drammatica. C’erano pochi fogli sparsi per terra, il grosso delle 300 mila pagine era sparito». Non è stata l’ultima amarezza. «Nel 2011 mi hanno dato la medaglia d’oro per le vittime del terrorismo. Mi spettava per legge. Ma ho dovuto chiederla io». Adesso andrà fino in fondo. «Sono scampato a un attentato e a due infarti. L’unica paura che avevo ed ho è quella di sprecare la mia seconda vita senza trovare risposte. A lungo ho sperato che fossero altri a scoprire tutta la verità. Ben presto ho capito che non sarebbe accaduto. Ho cercato di farlo io, anche se non sono più un giudice. E sono sicuro che presto la verità uscirà».
La storia. Da Trento alla Sicilia: intrighi e tradimento. Carlo Palermo diventa giudice istruttore di Trento a 33 anni. Nel 1980 scopre un traffico internazionale di droga e di armi da guerra, in cui spunta anche il ruolo di alcuni ufficiali dei servizi segreti stranieri e italiani, in particolare legati alla P2. «Scenari oscuri, che solo il tempo mi ha aiutato a chiarire – ricorda oggi –. Quasi tutto avveniva attraverso operazioni estero su estero. Si può dire che la storia d’Italia sia transitata su banche straniere, in particolare svizzere». L’indagine di Palermo sfiora società vicine al Psi. L’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, presenta un esposto al Csm, che avvia un’azione disciplinare. Dopo altri esposti, la Cassazione trasferisce l’inchiesta a Venezia. Gli imputati vengono condannati in primo grado, assolti in secondo. «In Italia ci sono state pochissime inchieste sui traffici d’armi e nessuna ha raggiunto la verità - riflette Palermo -. C’è una grande ipocrisia di fondo: siamo tra i più grandi esportatori di armi al mondo, in qualche modo bisogna pur venderle». Privato dell’inchiesta, il giudice chiede di andare a Trapani. Sopravvive all’attentato e nel 1990 viene dispensato dal servizio. Inizia la carriera di avvocato, assiste le parti civili nei processi legati a stragi e misteri che hanno colpito il nostro paese: Gladio, Ustica, Moby Prince e Capaci. Entra anche in politica (Sinistra Indipendente e Rete), ma capisce che non fa per lui. «Troppi compromessi. Denunciai i rimborsi gonfiati della Regione Lazio, sembra storia di oggi. Ma fu tutto archiviato. Nel 1992 fui eletto deputato, ma non mi fu consentito di far parte né della Commissione Antimafia né della Commissione Stragi. Fu un anno terribile: gli attentati di Capaci e di via D’Amelio riaprirono in me i vecchi traumi e mi dimisi per occuparmi del Trentino, dove mi hanno sempre voluto bene. Tanti magistrati sono andati avanti in politica, io non mi sono sentito adatto. Forse ero troppo intransigente».