Rapporto Caritas. Conflitti dimenticati, nel mondo 20 guerre e 186 crisi violente
Guerra civile in Libia
Cinque dei sei Paesi massimi esportatori di armi sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu. Ovvero di quell'organismo che fu concepito proprio per prevenire le crisi e tutelare i diritti umani fondamentali nel mondo. Se è questa l'architettura della governance globale, non può stupire il dato che nel 2017 fossero ben 378 i conflitti, tra cui 186 crisi violente e 20 guerre ad alta intensità. Sono diminuiti i conflitti non violenti, di tipo politico-territoriale, mentre sono aumentate le crisi violente: dalle 148 del 2011 si è passati appunto alle 186 del 2017 (più 25,7%). La disponibilità di strumenti bellici è una delle cause della profonda instabilità politica che colpisce grandi regioni in Africa, Asia, Medioriente. E senza contare i danni umani incalcolabili di una guerra, sapere che una mina antipersona costa 3 dollari ma ce ne vogliono 1.000 per neutralizzarla dà la dimensione della cecità della politica mondiale, che l'anno scorso ha permesso il record di spesa per gli armamenti dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Sono dati allarmanti quelli contenuti nel Rapporto di ricerca sui conflitti dimenticati "Il peso delle armi", preparato da Caritas italiana e pubblicato dal Mulino, in collaborazione con Avvenire, Famiglia Cristiana e il ministero dell'Istruzione, università e ricerca. Alla presentazione sono intervenuti tra gli altri i direttori di Avvenire Marco Tarquinio, di Famiglia Cristiana don Antonio Rizzolo, il direttore di Caritas italiana don Francesco Soddu e il vice Paolo Beccegato, e per il Miur Maria Pia Basilicata e Maria Costanza Cipullo. Ventisette gli autori coinvolti, assieme a sette enti di ricerca e organizzazioni, arricchito da indagini di opinione tra gli studenti di 45 scuole medie inferiori, e 25 gruppi scout Agesci. La presentazione coincide con il 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo «il cui rispetto è la premessa fondamentale per lo sviluppo e la pace», come ha sottolineato il direttore Caritas don Soddu.
Lo studio di Caritas italiana conferma dunque che sono in aumento produzione e vendita di tutti i tipi di arma, dalle leggere all'atomica. Un fenomeno che, secondo gli esperti, dipende dal fatto che gli Stati sono ormai convinti che, per vincere le guerre, servano arsenali sempre più ricchi e potenti. Nella classifica dei paesi esportatori di armi ci sono in testa gli Stati Uniti col 34,0%, seguiti da Russia (22%), Francia (6,7%), Germania (5,8%), Cina (5,7%) e Regno Unito (4,8%). Poi Israele e Spagna con entrambi il 2,9%, quindi l'Italia col 2,5%. Tra i principali importatori invece Arabia Saudita, Emirati Arabi, Australia, Iraq e Pakistan. Paesi che contribuiscono ad alimentare i conflitti in Yemen, Nord Africa e Medio Oriente.
Il report conferma poi con forza un binomio già noto agli studiosi: la povertà è più diffusa nei Paesi in cui si combatte, così come viceversa, laddove sono più drammatici recessione, diseguaglianze e scarso accesso a fonti di reddito risulta altamente più probabile scivolare nei conflitti. Per contrastare la povertà, osserva ancora Beccegato, diventa allora «fondamentale ragionare sulle dinamiche alla base della guerra e incoraggiare buone politiche, oltre che fornire aiuti».
Infine, il report si concentra sull'impatto dei cambiamenti climatici su guerre e migrazioni - l'Onu stima in 250 milioni i migranti e in oltre 70 milioni i rifugiati e gli sfollati. Tutti gli indicatori del rapporto Caritas su scala globale legati al degrado ambientale, ai disastri e alla scarsità di accesso alle fonti naturali contribuiscono a spiegare altre dinamiche di guerra, e in particolare in aree come il Sahel, il Golfo del
Bengala e parte dell'America Latina. Infine, lo studio si conclude con delle proposte che di fatto rilanciano l'applicazione dell'Agenda di sviluppo Onu 2015-2030, che, conclude Beccegato, «oggi più che mai servirebbe per creare un mondo diverso».
Guerre dimenticate, dunque, perché (quasi) nessun giornale ne parla. Il rapporto sui conflitti dimenticati ha anche preso in esame anche la copertura delle guerre da parte dei quotidiani più noti. Lo studio ha rivelato questa tendenza: se il conflitto supera la fase acuta e non coinvolge direttamente il nostro Paese scompare dai media. L'analisi ha preso in considerazione quattro delle principali crisi in corso: Yemen, Venezuela, Somalia e Ucraina. Altrettante le testate osservate: Corriere della Sera, Repubblica, Avvenire, La Stampa. Nel periodo di tempo esaminato - dal 1° novembre al 31 dicembre 2017 e dal 15 maggio al 15 giugno 2018 - risulta che tutti - pur con spazi diversi - hanno scritto di Yemen e Ucraina, solo in tre hanno raccontato del Venezuela (non Repubblica), e solo Avvenire ha trattato anche di Somalia. «Le guerre iniziano a finire - commenta in proposito il direttore di Avvenire Marco tarquinio - solo quando iniziamo a vederle. Solo se lo facciamo, esse possono finire». E sottolinea come comunque il dato del
64% italiani favorevole alla riduzione della vendita armi «non è un dato scontato, perché oggi si sta tornando a dire che un loro aumento corrisponda ad un aumento della sicurezza. Quanto è povera una politica che non sa cosa fa e che asseconda invece queste tendenze».
Un'informazione, dunque, non di rado provinciale e ripiegata su questioni nazionali. Che - secondo i curatori del rapporto - provoca un altro grave conseguenza: una diffusa ignoranza sul tema tra la popolazione italiana. Ad esempio, il 14% degli intervistati non è stato in grado di citare neanche un attentato terroristico negli ultimi anni. Il 10% del campione è costituito da giovani. Il 24%, di cui il 29% ragazzi, non ha saputo indicare una guerra in corso. Quasi nulla la conoscenza dei conflitti mondiali: solo il 3% ha saputo indicare una guerra in Africa. Fa eccezione la guerra in Siria, ricordata dal 52% del campione. Se infine sul tema «guerra e conflitti» la televisione resta il principale mezzo di informazione tra gli adulti - il 47% ha confermato tale tendenza - ben il 49% dei giovani tra i 18 e i 29 anni ha detto di fare ricorso ad internet.