I nodi da sciogliere. Carenza di medici e rinuncia alle cure Così la salute rischia
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Sono forse i problemi che toccano più da vicino gli italiani, quelli legati al mondo della sanità, e l’ennesima, brusca frenata di un governo rischia di aggravarli. Il ministro della Salute uscente, Giulia Grillo, appena un paio di giorni fa ha voluto condensarli in un lungo post di sfogo, pubblicato su Facebook, che al di là del significato politico ben illustra la situazione delle riforme mancate dall’ambizioso contratto gialloverde. Primo stop, quello all’aumento previsto di 3,5 miliardi per il Fondo sanitario: governo e Regioni avrebbero dovuto sottoscrivere il Patto per la Salute, a cui è collegato anche l’incremento in questione, e che dovrebbe prevedere anche una rimodulazione del ticket e un riordino delle specializzazioni mediche (oltre che risorse per personale, nuove tecnologie, interventi strutturali).
Fermo anche il ddl antiviolenza per tutelare i medici dalle aggressioni, che era atteso in aula al Senato a metà settembre, e che era stato più volte invocato dagli ordini professionali e dai sindacati visti anche gli ultimi casi di violenza. Così come la nuova legge sui vaccini, sulle cui divergenze rispetto alla normativa attuale tuttavia potrebbe persino essere un bene tornare a riflettere. Ma l’emergenza delle emergenze, quella che un nuovo governo dovrà subito affrontare senza esitazione, è senz’altro quella della carenza di medici. All’esecutivo uscente va senz’altro riconosciuto di aver portato a 8mila i posti nelle specializzazioni – 1.800 in più rispetto all’anno precedente – e avviato la possibilità di assumere nel Servizio sanitario nazionale gli specializzandi al quarto e quinto anno. Ma rispetto all’emorragia di personale, alle esigenze dei pazienti e all’emergenza quotidiana che si vive in corsia (con reparti interi paralizzati da Nord a Sud e concorsi che vanno deserti anche nei più blasonati degli ospedali) gli interventi finora sono stati troppo poco incisivi.
Col risultato che le Regioni – il Veneto ne è l’esempio eclatante, col suo ricorso ai pensionati prima e ai neoalureati poi – hanno cominciato a procedere in ordine sparso e col rischio che il livello di professionalità in corsia, assieme alla salute dei cittadini, possano pagare pegno per scelte affrettate e non soppesate con la necessaria attenzione. I numeri d’altronde, Av- venire lo denuncia da mesi, parlano chiaro: tra il 2018 e il 2025 dei circa 105.000 medici specialisti attualmente impiegati nella sanità pubblica ne potrebbero andare in pensione circa la metà (significa 52.500). E questo al ritmo di poco più di 6mila neolaureati che ogni hanno riescono a entrare nelle sucole di specializzazione, 800 che abbandonano il corso e il 15% che a fine percorso se ne va fuori dal-l’Italia.
Un’emorragia a cui si aggiunge – lasciata troppo spesso in sordina, altrettanto preoccupante – quella degli infermieri: 55mila i posti da coprire nelle aziende sanitarie, denunciano da tempo i sindacati. C’è poi il nodo critico dell’accesso alle cure. Se al governo uscente va riconosciuta l’attenzione al problema annoso delle liste d’attesa (il 21 febbraio veniva approvata dallo Stato e dalle Regioni l’intesa sul Piano nazionale, che è entrato in vigore con le sue stringenti tempistiche, troppo spesso lasciate sulla carta) la realtà dice, con l’Istat, che ci sono 2 milioni di persone (è il 3,3% dell’intera popolazione) costrette a rinunciare a visite ed esami proprio per problemi di attesa, mentre sono oltre 4 milioni quelle che vi rinunciano per motivi economici (6,8%).
Un assist alla sanità privata, che però soltanto in pochi possono permettersi in un Paese segnato da povertà e crisi. E il fenomeno della rinuncia alle cure coinvolge soprattutto gli anziani: le proiezioni dell’Osservatorio sulla salute indicano che nel 2028 il numero di malati cronici salirà a oltre 25 milioni (più dell’80% dei quali sopra i 65 anni). Numeri che dovrebbero bastare a mettere la questione in cima all’agenda di qualsiasi governo.