Attualità

ANALISI. «Un modello suggestivo esportabile»

Pietro Buffa - provveditore regionale dell'Amministrazione penitenziaria per il Triveneto e l'Emilia Romagna venerdì 29 novembre 2013
Cosa può scoprire un dirigente dell’amministrazione penitenziaria italiana in Brasile? Cinque giorni di missione a fine ottobre hanno dato una risposta a questo interrogativo che mi ponevo quando in rappresentanza del ministero della Giustizia fui invitato nel Minas Gerais. Il quadro: un’azione di cooperazione internazionale che l’Unione Europea sta svolgendo in Brasile, grazie al Programma EUROsociAl di cui l’IILA (Istituto Italo-Latino Americano) coordina l’attività.Un viaggio che mi ha dato e detto molto. Anzitutto sono stato impressionato dai giovani funzionari della cooperazione internazionale che ho incontrato: persone capaci, disponibili, flessibili. Ma la curiosità era grande soprattutto per le Apac, di cui avevo sentito molto parlare. Sono le Associazioni per la protezione e l’assistenza ai carcerati, una formula organizzativa e gestionale che esce dallo schema classico e crea un sistema nel quale le strutture di detenzione vengono gestite da una parte da personale remunerato ma non incardinato nell’amministrazione penitenziaria, dall’altra dal mondo delle associazioni e del volontariato. Un’esperienza unica, quindi, per due ragioni: il carcere è gestito dalla società civile e il detenuto è responsabilizzato al massimo, perfino nella gestione della struttura. Un modello suggestivo e, a quanto ho potuto constatare, anche efficace, con costi di realizzazione e gestione assai ridotti, e che le autorità brasiliane meditano di diffondere anche al di fuori dei confini nazionali.Un modello valido anche per l’Italia? Si può pensare anche da noi un carcere senza agenti e nel quale i detenuti sono chiamati "recuperandi" (e lo sono di fatto, considerate le cifre sulla recidiva nelle Apac)? Nell’ordinamento penitenziario brasiliano si afferma molto nettamente che la comunità partecipa alla gestione delle carceri. Un principio peraltro presente anche nel nostro ordinamento, in quell’articolo 78 per il quale l’attività di volontariato risulta quasi incardinata nella vita dei penitenziari. Noi però attualmente non abbiamo la possibilità concreta che una realtà sociale gestisca direttamente strutture di esecuzione della pena. Penso però che ci sarebbe spazio per progetti pilota con un’ampia partecipazione di realtà sociali, attraverso la creazione di percorsi che consentano a persone ancora soggette alla pena di uscire dal carcere per scontare in comunità esterne il loro debito con la giustizia.Dell’esperienza brasiliana mi ha molto colpito anche la responsabilizzazione dei detenuti, che in qualche misura anche il nostro ordinamento potrebbe incentivare. Il terzo elemento nel processo di umanizzazione della gestione quotidiana delle carceri è il lavoro. Nelle Apac brasiliane si tratta di un principio costitutivo, da noi rimane spesso solo enunciato, anche se esistono eccellenze che si spingono anche oltre ciò che abbiamo visto in Brasile.Si potrebbe obiettare che si tratta di belle esperienze, ma che la priorità per il nostro Paese è ben altra: la sentenza Torreggiani con le incombenti sanzioni che potrebbero scattare dal 28 maggio dell’anno prossimo. Invece proprio facendo tesoro dell’esperienza brasiliana, credo che la pressione dell’Unione Europea può diventare una molla - e così il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la sta interpretando - per un’azione pressante di miglioramento. Nel nostro sistema penitenziario non mancano intelligenze e capacità a tutti i livelli per fare questo salto di qualità.Non tutto ciò che ho visto in Brasile potrebbe essere attuato automaticamente nel nostro Paese, però la direzione verso cui andare è quella. Il sistema attuale tende all’infantilizzazione del detenuto, è un mondo a sé nel quale l’istituzione determina ogni minimo aspetto della vita quotidiana. La persona detenuta invece può essere coinvolta e responsabilizzata. Attraverso il lavoro, ad esempio. La direzione verso la quale cerchiamo di muoverci in questo momento è proprio questa: un carcere più responsabile è un’istituzione più forte e più efficace nel suo intento primo che - cerchiamo di non dimenticarlo - è il recupero delle persone.