Caritas. Carcere, la Chiesa chiede una svolta: «Basta con la sicurezza degli sceriffi»
Sbarre alle finestre nel carcere di Poggioreale a Napoli
Cambiare la cultura sul carcere e agevolare i percorsi di uscita e reinserimento dei detenuti per arrivare all'obiettivo del tasso di recidiva zero. Soprattutto con l'impegno di tutti perché occorrono investimenti.
Ma prima di tutto bisogna cambiare la narrazione distorta di questo tempo. «Perché non possiamo regalare il tema della sicurezza agli sceriffi di turno». Parole che il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, ha rivolto anzitutto a cappellani e volontari che hanno partecipato ieri a Roma al convegno “Giustizia e speranza: la comunità cristiana tra carcere e territorio” organizzato da Caritas italiana alla vigilia del Giubileo.
«Non possiamo accettare l’ignoranza rispetto alla cultura giuridica italiana – ha aggiunto Zuppi – ad esempio quando si dice di chi commette reati: “che marcisca in carcere”. Così andiamo indietro di secoli. Oggi dobbiamo fare esattamente il contrario ossia generare cultura e capacità di lettura e comprensione dei fenomeni». Anche perché inseguendo la pancia si creano situazioni paradossali. «Il giustizialismo è la cosa più offensiva e pericolosa per la giustizia e il cattivismo rende ignoranti e inconsapevoli e non assicura la sicurezza nei territori». Secondo il presidente della Cei, inoltre, sono le misure alternative a garantire la vera sicurezza. «Ma dobbiamo spiegarlo meglio, devono essere pene alternative nel senso vero del termine, ossia tendere alla rieducazione. Ma per questo c’è bisogno di strumenti e finanziamenti». La giustizia riparativa, invece, restituisce dignità alle vittime e agli autori dei reati. «Dobbiamo però lavorare ancora molto per garantire condizioni dignitose nelle carceri per raggiungere l’obiettivo “recidiva zero” bisogna dare lavoro e non elemosine». Il cardinale Zuppi ha concluso invitando a dare attenzione anche alla polizia penitenziaria.
Anche per monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia e presidente di Caritas italiana, la via è obbligata. «Fuori dal carcere, il prima possibile e accompagnati: è ciò che l’esperienza di molte Caritas e di molte altre realtà di volontariato indica come via doverosa per affrontare il problema della pena e del reinserimento». Per l'arcivescovo, «scontare una pena fuori dal carcere, ove possibile, è prima di tutto conveniente per la comunità: la recidiva diminuisce, i costi diminuiscono, le persone possono riprendere il corso di una vita regolare e diventano cittadini attivi. Uscire dal carcere il prima possibile significa limitare gli effetti negativi della detenzione e delle condizioni dei luoghi di reclusione sulle persone, sulle relazioni affettive». Nel percorso di reinserimento, ha sottolineato, «il punto di forza e l’opportunità stanno nella comunità, che può restituire alle persone condannate la vera necessità di un impegno evidente per ricostruire legami e fiducia dopo il reato e può farsi prossima e accogliente in vari modi durante il percorso giudiziario. La comunità è chiamata a vivere una conversione, per passare dalla paura e dal sospetto all’attenzione e all’accompagnamento». Il presidente della Caritas ha concluso ricordando che il Papa durante il Giubileo aprirà una Porta santa in un carcere, «un gesto simbolico per guardare all’avvenire con speranza».
Convitati di pietra il problema del sovraffollamento e la giustizia riparativa. Attualmente, le carceri italiane ospitano 61.862 persone recluse con un sovraffollamento significativo che incide sulle condizioni detentive. Tra queste, 45.404 persone stanno effettivamente scontando una condanna, ed un terzo ha una pena inferiore ai due anni. Ma pochi sanno che in Italia 2 persone su 3 stanno seguendo un percorso giuridico fuori dal carcere, con 140.718 persone in carico agli Uffici di esecuzione penale esterna, di cui 91.369 che sta eseguendo un percorso giuridico fuori dal carcere. Per l’ex Garante dei diritti dei detenuti Mauro Palma, oggi presidente del centro di ricerche European Penological center «teniamo in carcere 1.311 persone con condanna definitiva inferiore a un anno. Oggi prevale la semplificazione della complessità, si cerca di offrire una impressione di sicurezza accentuando le pene. I detenuti erano 55.835 nel settembre 2022, al momento dell'insediamento di questo governo. Oggi sono 61.862 mentre i posti in carcere regolari aumentati sono 226. Due velocità non comparabili».
Significative le testimonianze e il confronto tra volontari, operatori e cappellani.
Don Rosario Petrone cappellano del carcere di Salerno da 16 anni ha chiesto aiuto alla sua parrocchia per creare volontari e associazione. «Più volte ho pensato di dimettermi, mi ha fatto cambiare idea un detenuto straniero a fine pena. Non voglio tornare in mano a chi mi ha rovinato. Come puoi aiutarmi?, mi ha detto. Ed nato così dai fondi della Caritas un progetto per misure alternative in cui l'80% degli ospiti ha recuperato vita lavorativa e relazione con le famiglie. Siamo contenti della giustizia riparativa, è il Vangelo. Ma serve formazione e aiuto della Caritas per avviare la relazione tra reo e vittima». Diverse Caritas diocesane stanno collaborando con gli istituti di pena per attuare i percorsi nuovi previsti dalla legge del 2022. «Come Verona – spiega Alessandro Ongaro – dove abbiamo capito l’importanza di sentire accanto a quella del reo la voce di vittime, famiglie e comunità. Non è solo funzionale alla responsabilizzazione degli autori di reato ma a riconoscere la dignità di vittime e famiglie. La comunità ha bisogno di sicurezza dopo aver subito la lacerazione del reato, vuole sapere se la persona è diventata responsabile.»
Per Lucia Castellano, ex direttrice del carcere di Bollate e oggi provveditore in Campania «occorre avviare ovunque relazione forti con centri sportivi, scuole e biblioteche e associazioni. Alle Caritas dico di pretendere incontri mensili con le direzioni per avere relazioni e regole».
In conclusione Caritas italiana ha presentato un documento in cui ricorda le difficoltà per usufruire dei percorsi alternativi e del lavoro. E per accrescerli lancia un doppio appello il direttore di Caritas italiana don Marco Pagniello: «Per avviare questi processi che prevedono vicinanza ai detenuti e alle loro famiglie e l’accoglienza anche notturna servono progetti, finanziamenti e investimenti, serve che ciascuno faccia la propria parte, dalle istituzioni pubbliche alle imprese. Noi ci stiamo, ma chiedo un supplemento di impegno a chi lavora in carcere perché è tempo di preoccuparci di cambiare la narrazione con la nostra testimonianza».