L'emergenza. Carcere, il dramma delle donne
L'ingresso di un carcere femminile
Due detenute morte per propria scelta in poche ore nel carcere delle Vallette a Torino. Due situazioni disperate. Susan John, 43 anni, di origini nigeriane, rinchiusa nella sezione riservata alle recluse con problemi psichiatrici e comportamentali si è lasciata morire di fame e di sete per protesta. Diceva di essere stata condannata ingiustamente (doveva scontare dieci anni, sarebbe uscita nel 2030) e chiedeva di vedere la figlia piccola che dopo il suo arresto ha dovuto lasciare a casa con il marito. La donna rifiutava cibo e acqua dal 22 luglio e l’altra notte ha cessato di vivere. Nel pomeriggio un’altra reclusa, una 28enne italiana, si è tolta la vita impiccandosi in una cella dello stesso carcere. E in mattinata, un detenuto italiano della Casa circondariale di Cuneo ha cercato di uccidersi con un rudimentale cappio al collo ma per fortuna un agente di polizia penitenziaria è riuscito a liberarlo salvandogli la vita “in extremis” e praticandogli un massaggio cardiaco. Ma nelle carceri non cessano neppure le aggressioni: ieri nella Casa di reclusione Valle Armea di Sanremo, in provincia di Imperia, un ristretto nel reparto violenti ha assalito brutalmente con pugni e testate un addetto alla sorveglianza ferendolo in modo grave.
Dentro le mura delle prigioni italiane, dunque, continua l’inferno. In base agli ultimi dati dell’associazione Antigone, il tasso di sovraffollamento nei 189 istituti di pena del nostro Paese è salito intorno al 121% con 10mila persone in più rispetto ai posti disponibili e un numero di presenze in costante crescita, come i suicidi, arrivati dall’inizio dell’anno a 44, considerando anche gli ultimi due casi di Torino. Perché anche la morte di Susan deve considerarsi tale: non voleva essere sottoposta a terapie farmacologiche e aveva respinto anche l’ambulanza chiamata dalla direzione del carcere quando le sue condizioni erano peggiorate. Sul suo caso, intanto, il pm Delia Boschetto ha aperto un’inchiesta disponendo l’autopsia sul cadavere. Ed è intervenuta anche la garante cittadina dei detenuti Monica Gallo. «Dal carcere non ci sono mai giunte segnalazioni – ha dichiarato – eppure i nostri contatti sono regolari ma nessuno ci aveva informato. Probabilmente non sarebbe cambiato nulla – ha concluso la garante – però, almeno, avremmo potuto attivare le nostre procedure e tentare qualcosa».
A puntare il dito sulla grave situazione sanitaria esistente nelle carceri, invece, è il segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo degli agenti penitenziari Donato Capece il quale definisce il quadro «allarmante, come hanno anche confermato in più occasioni gli esperti della Società Italiana di Medicina e Sanità Penitenziaria». Il recente rapporto su “Salute mentale e assistenza psichiatrica in carcere” del Comitato Nazionale per la Bioetica, osservando le tipologie di disturbo prevalenti sul totale dei circa 57mila detenuti presenti, ha rilevato al primo posto la dipendenza da sostanze psicoattive (23,6%), poi i disturbi nevrotici e reazioni di adattamento (17,3%) e quindi i disturbi alcol correlati (5,6%).
E a proposito del suicidio sventato nel carcere di Cuneo, il segretario regionale del Sappe Piemonte, Vicente Santilli ricorda che «negli ultimi vent’anni le donne e gli uomini della polizia penitenziaria hanno sventato, dietro le sbarre, più di 24mila tentati suicidi e impedito che quasi 195mila atti di autolesionismo potessero avere nefaste conseguenze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi - conclude Santilli – sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere». Ma non va sottovalutata la condizione di disagio degli agenti, sottoposti di continuo a situazioni di stress e superlavoro con turni massacranti, minacce e vessazioni da parte dei detenuti più facinorosi: negli ultimi 20 anni sono stati ben 147 i suicidi di appartenenti al Corpo, dieci dei quali negli ultimi due anni.
Il dolore dell'arcivescovo Roberto Repole
Di seguito la dichiarazione rilasciata dal arccivescovo di Torino e vescovo di Susa:
«Ho appreso con sgomento che due donne ristrette nella Casa circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno” ieri (10 agosto, ndr), a poche ore una dall’altra, hanno perso la vita dietro le sbarre. Susan, 42 anni, si è lasciata morire di fame; Azzurra 28 anni, si è impiccata. Sono tre, con Graziana 52 anni, suicida il 29 giugno scorso, le detenute che nell’ultimo mese e mezzo si sono tolte la vita nel carcere delle Vallette, dove sono recluse 129 donne su oltre 1400 ristretti, in uno dei penitenziari italiani più sovraffollati e con il più alto tasso di suicidi. È un grido di dolore che ferisce tutti: non possiamo stare a guardare.
Ancora una volta due nostre sorelle non hanno trovato nessuna speranza di libertà a cui aggrapparsi se non la morte. Mentre ci raccogliamo in preghiera per loro, diamo voce allo scandalo per due decessi che interpellano tutti. Non possiamo “abituarci” a queste notizie: in un Paese civile, nessuno dietro le sbarre deve sentirsi condannato a morte, ma deve trovare nel tempo della pena motivi speranza per il futuro come recita l’art. 27 della nostra Costituzione.
Come accennavo durante la festa patronale di san Giovanni Battista, mi preoccupa che l’età media dei detenuti si abbassi e che sempre più giovani finiscano in cella. I motivi sono diversi, dalla crisi di senso, alla solitudine, alla paura per il futuro. Quel che è certo, numerosi detenuti che tentano il suicidio temono la vita oltre le sbarre per la quale, probabilmente, il carcere non riesce a preparare né psicologicamente né con prospettive di lavoro ed autonomia.
Per questo invito la comunità cristiana torinese – che da sempre sulle orme dei nostri santi sociali si adopera tramite Caritas, volontari di alcune parrocchie, religiosi e cappellani - a stare accanto materialmente e spiritualmente ai ristretti, a coinvolgersi ancora di più: “Ero carcerato e mi siete venuti a trovare” (Mt. 25.36) non è un’opera di misericordia “per addetti ai lavori”. Ciascuno con la propria disponibilità può donare una speranza per “rialzarsi”, come ci ha ricordato papa Francesco alla recente Gmg di Lisbona
Infine mi appello alla comunità civile ed alle istituzioni locali e nazionali che hanno in carico la gestione del sistema penitenziario e del reinserimento dei reclusi nella società: sappiamo trattarsi di un compito impegnativo ma è una sfida necessaria per la sostenibilità della nostra convivenza ed una responsabilità nei confronti delle generazioni future».