Carcere, l'incontro. «Viviamo dietro le sbarre per ritrovare la speranza»
I partecipanti al meeting 3.0 dei giornalisti “cattolici e non” nel supercarcere di Marino del Tronto, presso Ascoli Piceno
Tony è siciliano, ha 53 anni, 24 dei quali passati dietro alle sbarre. Per rapina. È entrato e uscito non sa più quante volte. Adesso gli mancano quattro anni per tornare, spera definitivamente, fuori. Lo incontriamo nel supercarcere di Marino del Tronto, alle porte di Ascoli Piceno, dove per la prima volta i giornalisti entrano in gruppo per un momento di confronto, fortemente voluto dalla diocesi e dalla direzione della struttura penitenziaria, che si svolge nell’ambito del meeting 3.0 dei giornalisti “cattolici e non”. Tony è commosso. Non è la prima volta che prende parte a progetti del genere, in particolare con Radio Incredibile, emittente digitale locale che struttura programmi in carcere e poi li diffonde fuori, ma parlare a 50 giornalisti, quando di solito è costretto a rispondere, soprattutto alle domande di poliziotti e magistrati, non gli era mai capitato. Prende la parola dopo avere ascoltato gli interventi di Giovanni Tridente, Andrea Domaschio, Francesco Zanotti, Simone Incicco e confida: «Sulla mia esperienza sto scrivendo un libro, ho anche pensato al titolo, Una vita incompiuta...».
Perché incompiuta? «Perché sono sposato, da tanti anni, ma non ho mai avuto la fortuna di avere un figlio... Per la verità non so se sono dispiaciuto o gratificato da questa cosa, perché un mio compagno di cella ha avuto l’avventura di ritrovarsi in carcere pure con suo figlio... Però, valeva la pena rischiare e un figlio mi manca».
Accanto c’è Antonio, pugliese, che racconta una storia tremenda: «In famiglia nessuno sapeva della mia “doppia vita”, fin quando, dopo l’arresto, la storia è venuta prepotentemente fuori... Vedere i tuoi figli che ti guardano e ti chiedono: “Papà, ma tu sei davvero questo?”, e non riuscire a guardarli negli occhi, non sapere spiegare loro perché è successo... Per fortuna, la forza dell’amore del legame familiare ci ha salvati. Hanno capito, e ora con tanta fatica sono riuscito a recuperare un rapporto autentico con loro».
Poi è la volta di Giampiero, è della parrocchia di Monticelli, ad Ascoli Piceno, la stessa di un altro Giampiero, il sacerdote che è riuscito a creare questa occasione di incontro, nel suo ruolo di responsabile della Commissione comunicazioni sociali e direttore di Radio Ascoli. Giampiero è conosciuto, nell’ambiente, come il “sindacalista del metro quadro”: ha l’animo del lottatore, e non ha difficoltà a diventare riferimento, anche in questo difficile ambiente. Gli chiediamo per quali diritti è stato chiamato a battersi... risponde che il tema più sentito, in carcere, era proprio quello degli spazi. È contento che, a distanza di tempo, gli spazi a disposizione dei detenuti siano significativamente aumentati. E non solo gli spazi fisici: «Si respira proprio un’altra aria – riconosce – per le tante attività e per i lavori che oggi riusciamo a svolgere. Il nostro obiettivo è davvero quello di restare in cella meno tempo possibile».
L’incontro dei detenuti con un gruppo mai tanto numeroso di giornalisti in un carcere di massima sicurezza ha la forza di rompere la solitudine e il silenzio nel quale sono immerse le esistenze di chi passa qui anni della sua vita per pagare il proprio debito con la società. È la chiave per prendere coscienza che occorre prevenire la disperazione di chi dietro le sbarre non vede un domani e arriva fino al suicidio (nel 2018 la tragica contabilità è ormai a quota 50). L’augurio arriva alle persone carcerate ad Ascoli dal direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: «Il mio giornale resterà sempre fedele alla sua missione che è raccontare terre e popoli di frontiera: il carcere e i detenuti appartengono a questo mondo. E non è un caso se questo giornale è il più diffuso e letto in queste strutture, dove quotidiani e tv rappresentano gli essenziali canali di informazione dall’esterno».
Una bella provocazione viene anche dal vescovo di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole: «Voi lo sapete che la libertà vera è dentro il vostro cuore, ed è possibile sentirsi liberi anche dentro il carcere...». I detenuti rimangono colpiti da questa “carezza”, ed è Antonio a rispondere: «Ci portiamo dentro questo invito, che ci aiuta a leggere la nostra vita, la nostra esperienza, con occhi diversi. Ci portiamo via la consapevolezza che il carcere può maturare e raggiungere davvero, in anticipo, quella sensazione di equilibrio e serenità che poi, fuori, potrà acquistare una maggiore completezza».