Attualità

Agromafie. Caporali in azienda, la «normalità» italiana

Antonio Maria Mira sabato 14 luglio 2018

Trentamila aziende agricole, una su quattro, ricorrono ai caporali. Un affare, quello dell’intermediazione illegale e dello sfruttamento dei lavoratori, che frutta 4,8 miliardi di euro, con un’evasione contributiva di 1,8 miliardi. Vittime sono circa 430mila lavoratori italiani e stranieri, 132mila dei quali in condizione di grave vulnerabilità. Sono i numeri più gravi del 'Quarto Rapporto Agromafie e Caporalato' dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai Cgil presentato ieri a Roma alla presenza del presidente della Camera, Roberto Fico (che ancora una volta si distingue su questi temi dal resto della maggioranza), e della segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso.

Per la leader sindacale «nessuno deve pensare di rimettere mano alla legge sul caporalato», e tanto meno a reintrodurre i voucher: «Promettiamo una nuova battaglia per la loro abrogazione. Un messaggio soprattutto ai ministri leghisti che continuano a criticare la legge del 2016 che ha reso più efficace la lotta allo sfruttamento. In Italia, si legge nel rapporto, «su circa un milione di lavoratori agricoli dipendenti, i migranti si confermano una risorsa fondamentale »: quasi un lavoratore regolare su tre viene da oltre confine. Nel 2017, a fronte dei 405mila totali (tra immigrati regolari e irregolari), sono stati registrati con contratto regolare in 286.940 (circa il 28% del totale generale), di cui oltre uno su due sono comunitari e la restante parte provenienti da Paesi extra Ue. Il documento, si legge ancora, non solo «rappresenta la fotografia della situazione, ma si fa strumento di intervento per guardare avanti. A partire dalla piena applicazione della legge 199 del 2016 di contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento».

Secondo il Rapporto, il passo in avanti è stato fatto grazie ad «una legge che ha dimostrato la sua valenza dal punto di vista della repressione e dell’individuazione del reato», come testimoniano le 71 persone arrestate per sfruttamento lavorativo e caporalato e più del 50% delle 7.265 aziende ispezionate che hanno presentato irregolarità nel 2017».

Più di 300mila lavoratori agricoli, quasi tre su dieci, lavorano meno di 50 giornate all’anno, ed è presumibilmente in questo bacino che è presente il lavoro 'nero' o 'grigio'. Infatti ben il 39% dei rapporti di lavoro in agricoltura risulta irregolare. I lavora- tori irregolari individuati nel 2017 sono stati 5.222, il 67% totalmente in nero. Per questi braccianti, immigrati o italiani, la paga media oscilla tra i 20 e i 30 euro al giorno, ma resiste il lavoro a cottimo (3-4 euro per un cassone di 375 chili), con un salario che è comunque inferiore del 50% rispetto a quanto previsto dai contratti nazionali e provinciali. Per le donne il salario è ridotto ulteriormente del 20%. «Nei gravi casi di sfruttamento analizzati – spiega la Flai – alcuni lavoratori migranti percepivano un salario di un euro l’ora». I lavoratori devono pagare ai caporali il trasporto (mediamente 5 euro al giorno), e anche il cibo e l’acqua (3 euro un panino, 1,5 euro una bottiglietta).

Ma chi sono i caporali? Come ha spiegato Francesco Carchedi, curatore del rapporto con Roberto Iovino e Alessandra Valentini, il 60 per cento «sono caporali caposquadra, ampiamente usati dalle imprese che una volta acquisita la manodopera non la mettono in regola». Ci sono poi i caporali che agiscono «in modo unilaterale, con violenza, è la 'controsquadra'». Infine ci sono i caporali collusi con organizzazioni criminali e con le mafie, che rappresentano il 10%. Proprio per questo, ha detto la segretaria generale Flai, Ivana Galli, «la legge sul caporalato, che funziona, va applicata, dalla prevenzione alle normative ispettive. Prefetti e istituzioni devono adoperarsi, è una legge che non va smontata».

«Vanno bene azioni collaterali – ha insistito Camusso – ma non riapriamo cantieri che non vanno riaperti». Anche perché, ha aggiunto, «non è vero che questo Paese non abbia bisogno dei migranti, ma abbiamo bisogno di concordare i flussi di manodopera e cambiare la legge Bossi-Fini. Bisogna sconfiggere la paura, che si sconfigge mettendo di fronte le persone e pensando prima ad ad essere umani piuttosto che a pensare al profitto. Con buona pace di chi urla ogni due per tre all’invasione».