Foggia. Caporalato, indagata la moglie del capo immigrazione del Viminale
L'imprenditrice agricola foggiana quando aveva bisogno di braccianti avrebbe chiamato il caporale gambiano, "consapevole delle modalità della condotta di reclutamento e sfruttamento". E lei stessa avrebbe sottoposto "decine di lavoratori di varie etnie" a "condizioni di sfruttamento" nella sua azienda sul Gargano "approfittando del loro stato di bisogno derivante dalle condizioni di vita precarie".
Sembrerebbe l'ennesima storia di lavoro schiavizzato se non fosse che l'imprenditrice, Rosalba Livrerio Bisceglia, è la moglie del prefetto Michele di Bari, capo del Dipartimento Libertà civili e immigrazione del ministero dell'Interno, che dopo l'uscita della notizia ha dato le dimissioni, subito accettate dal ministro, Luciana Lamorgese.
È sicuramente la notizia più clamorosa dell'inchiesta "Terra rossa" condotta dai carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Manfredonia e del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Foggia, coordinati dalla Procura del capoluogo, tra le più impegnate nel contrasto allo sfruttamento, una "diffusa situazione di illegalità radicata nelle campagne del Foggiano". Infatti l'indagine parte alla fine di luglio 2020, quando a seguito di alcuni servizi di osservazione, proseguiti anche dopo l'operazione denominata "Principi e Caporali", viene individuato il caporale gambiano, 33 anni, Bakary Saidy. Lui e il complice del Senegal, considerati "l'anello di congiunzione" tra le aziende e i braccianti, sono finiti in carcere.
Altre tre persone agli arresti domiciliari. Undici sottoposte all'obbligo di firma e di dimora, tra le quali l'imprenditrice moglie del prefetto. (*** AGGIORNAMENTO DEL 4 GENNAIO 2022: Il Gip del Tribunale di Foggia ha revocato le misure personali nei confronti di Rosalba Livrerio Bisceglie)
E ben 10 aziende agricole sono state sottoposte a controllo giudiziario. Per tutti l'accusa di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di immigrati "tutti "residenti" nella nota baraccopoli di Borgo Mezzanone, ove insiste un accampamento che ospita circa 2mila persone, che vivono in precarie condizioni igienico-sanitarie e in forte stato di bisogno".
I due "caporali" "alla richiesta di forza lavoro avanzata dalle aziende, si attivavano e reclutavano i braccianti all’interno della baraccopoli, provvedevano al loro trasporto preso i terreni e li sorvegliavano durante il lavoro, pretendendo sia 5 euro per il trasporto, sia 5 euro da ogni bracciante per l’attività di intermediazione". Inoltre si occupavano anche di dare "specifiche direttive ai braccianti sulle modalità di comportamento in caso di accesso ispettivo da parte dei Carabinieri". Sottopagati i lavoratori. Come emerge anche da alcune intercettazioni.
Un bracciante chiede '"quant'è la paga?'" e il caporale risponde che il pagamento non sarà all'ora ma a ''giornata'' e pari a 35 euro al giorno per 6 ore, una somma che risulta ''palesemente difforme alle tabelle del contratto collettivo nazionale che preveda una somma netta di euro 50 per 6 ore e 30 di lavoro''. In realtà alla fine lavoravano anche più di 8 ore. Non solo. Proprio nell'azienda dell'imprenditrice veniva anche violata la normativa relativa all'orario di lavoro e ai periodi di riposo, tanto che non veniva riconosciuta ai lavoratori "la retribuzione per lo straordinario, le pause (salvo una breve per il pranzo) e senza consentire l'utilizzo di servizi igienici idonei". Inoltre, si legge ancora nelle carte, è stata violata la normativa in materia di sicurezza sul lavoro, in quanto i braccianti erano sprovvisti dei dispositivi di protezione degli infortuni. Drammatiche le condizioni del trasporto dei lavoratori, come scrive il gip nell'ordinanza.
"È emerso che tutti i lavoratori versano in situazioni di significativo stress lavorativo psico-fisico, e pur di lavorare e raggiungere il posto di lavoro, alcuni si recano a lavoro in bicicletta ed altri con veicoli del tutto inadeguati e con evidenti rischi per la propria incolumità (è sufficiente sul punto far riferimento ai veicoli sequestrati nel corso dell'accesso ispettivo e alle conversazioni nelle quali il Saidy evidenzia di riuscire a far entrare qualcuno anche nel cofano)".
Sempre il gip scrive che l'imprenditrice "evidentemente si occupava dell'assunzione della manodopera, attività che peraltro svolgeva senza conoscere direttamente i braccianti e sulla sola base dei documenti'' che le forniva il caporale. Ma era ben cosciente della condizione di illegalità e infatti in azienda c'era preoccupazione e attenzione per la regolarità dell'impiego della manodopera solo successiva ai controlli". Così l'indagata "si preoccupa, dopo i controlli, di compilare le buste paga, chiama Saidy e non i singoli braccianti per dirgli come e perché si vede costretta a pagare con modalità tracciabili e concorda, tramite Bisceglia Matteo (altro indagato, ndr), che l'importo della retribuzione sarà superiore a quella spettante e che Saidy potrà utilizzare la differenza per pagare un sesto operaio che, evidentemente, ha operato in nero". Lei, interpellata dalle agenzie di stampa, nega: "Saprò dimostrare con carte alla mano la mia assoluta innocenza".