Caporalato. Arrestati i datori di lavoro di Naceur, morto di caldo lavorando nei campi
Morire di fatica e di caldo, morire di lavoro, morire di sfruttamento. Così il 21 luglio scorso è morto Naceur Messaoudi, 57 anni, bracciante agricolo tunisino. Per questa morte sono ora finiti agli arresti domiciliari, con braccialetto elettronico, due imprenditori di Palma Campania, padre e figlio, che avevano preso in affitto dei terreni a Montalto di Castro dove coltivavano angurie, facendo lavorare in nero sei braccianti tunisini, tre anche senza permesso di soggiorno.
Naceur, sposato e con due figlie, era in Italia dagli anni ‘90, ed era invece regolare, però aveva dovuto accettare il lavoro sfruttato, fino a dodici ore al giorno a caricare angurie pesanti fino a 30 chili. Centinaia di angurie, lavoro a cottimo, vietato. Ma così riusciva a mandare a casa 400 euro ogni mese. Però costretto a lavorare con temperature fino a 40 gradi e una fortissima umidità, e senza pausa per il pranzo. Una condizione che è stata fatale per il tunisino che soffriva di pressione alta. Ma sicuramente i datori di lavoro non avevano fatto i controlli sanitari obbligatori.
«Omicidio colposo, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, realizzati attraverso lo sfruttamento dei lavoratori, approfittando del loro stato di bisogno, impiego di manodopera clandestina, violazione di qualsivoglia normativa sull’orario di lavoro ed in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro», le accuse per i due imprenditori. Secondo le indagini condotte dai carabinieri della stazione di Montalto Di Castro e da quelli del nucleo ispettorato del lavoro, coadiuvati da mediatori culturali dell’Oim, e col coordinamento della Procura di Civitavecchia, il bracciante si era sentito male mentre raccoglieva le angurie ma i suoi datori di lavoro, nonostante lo avessero visto accasciarsi a terra, non avevano chiamato i soccorsi. Solo più tardi lo avevano scaricato davanti alla porta del pronto soccorso dell’ospedale di Tarquinia. E se ne erano andati per evitare di essere identificati. Aveva la febbre alta e una forte disidratazione, così era stato trasferito all’ospedale di Viterbo. Purtroppo era ormai tardi. Grazie alle telecamere del primo ospedale è stata identificata l’auto che lo aveva trasportato e il conducente, arrivando ai due imprenditori che sono stati così arrestati.
Molto netto il commento del vescovo di Civitavecchia-Tarquinia, don Gianrico Ruzza. «Mi vergogno che drammi di questo tipo accadano nella mia diocesi. Purtroppo serve un dramma per scuotere dall’indifferenza. Parliamo tanto di “made in Italy”, ma si tratta di prodotti tirati su dalle mani di persone che vengono dall’Africa, sfruttate e massacrate. Il Papa lo ripete sempre che se l’uomo non ha lavoro non c’è la dignità, però deve essere un lavoro dignitoso». E allora, insiste il vescovo, «servono contratti regolari, serve sicurezza sul lavoro. Servono controlli per arrivare prima dei drammi».
Dunque fa «un appello alla responsabilità degli imprenditori. Certo le condizioni dell’agricoltura non sono favorevoli per garantire un giusto guadagno ma questo non giustifica lo sfruttamento. Bisogna aiutare le aziende ma non sulla pelle dei lavoratori». E un ruolo lo devono avere anche i consumatori. «L’utente del “made in Italy” si domanda come quel prodotto arriva sulla sua tavola? In che condizioni lavorano?». Ma il vescovo ha anche «il timore che queste forme di caporalato nascondano in realtà forme di non accettazione dello straniero e addirittura di razzismo. E su questo come comunità cristiana dobbiamo intervenire».