La Lega aggiusta il tiro sul caso che anima il dibattito sul Mezzogiorno. «Nessuno ha mai parlato di gabbie salariali, nessuno vuole riportarle», ha precisato ieri Roberto Calderoli, il ministro per la Semplificazione normativa che martedì aveva riproposto salari «parametrati secondo il costo della vita», subito dopo la pubblicazione dello studio Bankitalia secondo cui questo è inferiore del 16,5% al Sud. Per Maurizio Sacconi, ministro del Lavoro, la dichiarazione di Calderoli «seppellisce definitivamente l’ennesimo pretestuoso caso d’agosto». E il presidente del Senato, Renato Schifani, ricorda che al Sud «servono infrastrutture, non gabbie».No quindi a minimi contrattuali diversi imposti per legge (è questo il meccanismo delle gabbie che, creato nel 1954, fu poi rimosso 40 anni fa, nel ’69). Bisogna invece lasciar agire il nuovo sistema contrattuale in vigore appena dallo scorso aprile che, ricorda Sacconi, «promuove il decentramento della contrattazione», affidata all’autonomia di imprese e sindacati sulla base degli indici di produttività di ogni azienda. Lo stesso Calderoli riconosce che «è chiaro che è un discorso di contrattazione», alla fine della quale però (e tenendo conto che la maggioranza si «impegna a recuperare il
gap» nelle opere pubbliche fra Sud e Nord) «è chiaro» pure che «il costo della vita deve poter incidere su quello che è il potere d’acquisto».Una marcia indietro c’è. Resa ancor più evidente dal fatto che ieri mattina (qualche ora prima che Calderoli precisasse) la
Padania, il giornale della Lega, era uscito titolando a tutta pagina «È tempo di gabbie salariali» e ricordando che «si chiamino gabbie o, come preferisce Bossi, salari territoriali» questa battaglia «è nel dna del Sindacato padano». Ma, mentre il Pd si agita contro quest’ultima sortita della maggioranza (con l’ex ministro Cesare Damiano che parla di «improvvisazione sulla pelle dei lavoratori»), un’insolita apertura arriva da Antonio Di Pietro che, nel dire no a un meccanismo di gabbie, afferma poi che «una diversificazione degli stipendi e del costo del lavoro è auspicabile se si vuole dare al Sud una duplice risposta».Insomma, se a una diversificazione dei salari fissata per legge non crede nessuno (il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, è convinto che «non se ne farà nulla», il leader Uil Luigi Angeletti la bolla come «un’ipotesi senza senso» e l’Udc taglia corto con Lorenzo Cesa, «il Sud è già in gabbia, si guadagna il 18% in meno»), su una loro introduzione per via contrattuale si esercitano le varie sensibilità della maggioranza. Così per Fabrizio Cicchitto, il presidente dei deputati del Pdl che invita prima di tutto a sgombrare il campo da «battute sommarie» e «ipocrisie», resta il punto che «un’articolazione salariale al Nord e al Sud fondata su più livelli di contrattazione e gestita dalle parti sociali è ragionevole e, anzi, è utile proprio per i lavoratori». Interviene anche Gianfranco Rotondi per ricordare la «commissione modello Attali (quella voluta da Sarkozy,
ndr)» che insedierà nel suo ministero per l’Attuazione del programma allo scopo di «individuare piste meno banali per il rilancio del Sud» (Rotondi afferma poi di averne proposto invano a Ciampi la guida).Anche Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl in Senato, è per il «no a discriminazioni per legge», ma a favore di «margini più ampi alla contrattazione fra imprese e organizzazioni sindacali». Del resto, per lo stesso ministro Sacconi nel nuovo sistema che deve essere applicato «è implicito, ma non per questo meno evidente, il fatto per cui la contrattazione locale tiene inevitabilmente conto dello specifico costo della vita nel contesto territoriale». Un sì a regole certe da concordare a livello nazionale per agganciare gli stipendi ai livelli produttivi viene poi dall’economista Tito Boeri, convinto che occorra dare ai contratti aziendali un ruolo ben più forte, ma con la postilla che «deve valere anche l’inverso: se cala la produttività, calano anche i salari». Non la pensa così Susanna Camusso (Cgil), la quale ricorda che «la stessa Bankitalia ci informa che i lavoratori ai minimi contrattuali sono oggi il 10% al Nord, il 30% al Centro e oltre il 40% al Sud».