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Caporalato. Calabria, braccianti trattati come schiavi e chiamati "scimmie"

Antonio Maria Mira mercoledì 10 giugno 2020

Chiamati "scimmie" e trattati come schiavi, ai quali addirittura davano da bere l'acqua dei canali. Erano più di duecento o braccianti immigrati sfruttati da caporali e imprenditori, tra la Calabria e la Basilicata. Pakistani e africani, prelevati anche dai Cas (vietato) pagati 80 centesimi a cassetta di agrumi o 10 euro al giorno. Meno peggio le donne dell'Europa dell'Est costrette a raccogliere fragole per 28 euro al giorno. Cifre dalle quali venivano detratte le spese per il trasporto e il vitto. Condizioni disumane, completa illegalità, il tutto realizzato da gruppi organizzati, capaci anche di gestire traffici illeciti di immigrati e perfino matrimoni combinati, seguiti dopo pochi giorni da separazioni e divorzi, per ottenere il permesso di soggiorno. È quanto ha scoperto l'operazione "Demetra" della Guardia di Finanza del Comando Provinciale di Cosenza, coordinata dalla Procura di Castrovillari. Una delle più vaste compiute in Italia: 14 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 38 ordinanze di arresti domiciliari e 8 ordinanze di sottoposizione all’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria; sequestro preventivo di 14 aziende agricole, 12 ubicate in provincia di Matera e 2 in provincia di Cosenza, per un valore stimato di quasi 8 milioni di euro, e di 20 automezzi utilizzati per il trasporto dei braccianti. L'accusa è di associazione per delinquere finalizzata all’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (cosiddetto “caporalato”) ed al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

L’indagine è partita dal controllo, effettuato dai finanzieri della Tenenza di Montegiordano, di un furgone che, diretto nelle campagne lucane, percorreva la statale 106 Jonica con a bordo 7 braccianti provenienti dalla sibaritide. Si è così giunti all’identificazione di numerosi soggetti, italiani e stranieri (in particolare, di nazionalità pakistana, magrebina e dell’Est Europea), impegnati in un’organizzata e fiorente attività di sfruttamento illecito di manodopera bracciantile e di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nella piana di Sibari. Le investigazioni, durate più di un anno, hanno visto le Fiamme Gialle impegnate in un’intensa attività di intercettazione, in numerosi e mirati servizi di osservazione e pedinamento, localizzazioni Gps, sequestri, acquisizioni documentali e assunzione di sommarie informazioni. Ed è emerso un quadro indiziario grave su reiterate condotte di sfruttamento e utilizzazione illecita di manodopera, spesso reclutata anche nei Cas, nonché di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Come detto oltre 200 i braccianti reclutati e condotti sui campi in condizioni di sfruttamento, costretti a lavorare in assenza di dispositivi di protezione individuale, impiegati in turni di lavoro usuranti e costretti ad accettare condizioni di lavoro degradanti e non conformi ai contratti collettivi.

Le terribili intercettazioni

Le intercettazioni telefoniche e ambientali sono veramente terribili. "Ai neri mancano un paio di bottiglie di acqua. Nel canale, gliele riempiamo nel canale", dice un caporale intercettato al telefono. Bottiglie oltretutto da raccogliere "in mezzo ai cespugli". Un trattamento disumano. Perchè certo non erano considerati persone. "Dove sono le scimmie?", chiede uno degli imprenditore, protestando perchè ancora non sono arrivati. E poi gli accordi per i lavori da portare avanti il giorno dopo: "Domani mattina ci vogliono le scimmie", dice un altro imprenditore, "e facciamo venire le scimmie, così cerchiamo di finire", risponde il caporale dall’altra parte del telefono. Parole durissime, pronunciate anche in dialetto. "Le condizioni lavorative variavano a seconda della tipologia del raccolto e dell’etnia dei lavoratori, e sono state documentate condizioni di vero sfruttamento, anche di violenze fisiche", ha spiegato il colonnello Danilo Nastasi, comandante provinciale della Guardia di Finanza di Cosenza. Non meno dure le parole del tenente colonnello Valerio Bovenga, comandante del Gruppo della Guardia di Finanza di Sibari. "I lavoratori venivano ospitati in locali fatiscenti, sporchi, senza riscaldamento, e molti di loro dormivano a terra, sfruttati e trattati come oggetti, senza nessun diritto". Eppure per abitarvi erano addirittura costretti a pagare una somma di denaro agli indagati.

Le organizzazioni

Due le associazioni criminali smantellate dalla Guardia di Finanza ed operanti tra la Calabria e la Basilicata. La prima, cui appartenevano, a vario titolo, 47 persone, era impegnata in una fiorente attività d’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Ed era così composta: 16 caporali, vertici del gruppo con compiti di direzione e controllo dell’attività illecita, erano loro a stabilire le modalità del reclutamento, a fissare le condizioni dell’impiego sui campi dei singoli braccianti, ad avere i rapporti con gli imprenditori-utilizzatori della manodopera, ad organizzare i furgoni utilizzati per il trasporto dei braccianti, a tenere la contabilità relativa alle giornate di lavoro svolte da ciascun bracciante, a retribuire quest’ultimo per la singola giornata di lavoro svolto mediante la corresponsione di somme di denaro non adeguate al lavoro prestato; 8 sub-caporali, con il ruolo di collaboratori diretti dei vertici del grupp, "la longa manus di questi ultimi nella gestione della manodopera bracciantile"; 22 "utilizzatori" che, attraverso le aziende agricole da loro gestite, ben 13, e sulla scorta di consolidati rapporti con i vertici dell’organizzazione criminale, impiegavano i braccianti reclutati nei campi, sottoponendoli a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno. E questo grazie a un collaudato sistema di fittizie assunzioni, con imponenti risparmi fiscali e previdenziali. Un dipendente dell’amministrazione comunale di Rossano, abusando del suo ruolo, favoriva l'organizzazione criminale rilasciando documenti di identità e certificati di residenza in favore dei braccianti reclutati al fine di regolarizzarne la posizione sul territorio e consentire la fittizia assunzione da parte delle aziende.

Matrimoni "di comodo"

La seconda organizzazione, collegata alla prima, era composta da 13 soggetti, impegnata, oltre che nell’illecito sfruttamento della manodopera, anche nel favoreggiamento dell’immigrazione. Addirittura, dietro pagamento di cospicue somme di denaro, organizzava matrimonidi comodo” finalizzati a garantire la permanenza, sul territorio italiano, di soggetti irregolari o favorire, mediante permessi di soggiorno per ricongiungimento familiare, l’ingresso di persone dimoranti all’Estero. Dopo essersi procurati la documentazione necessaria, gli indagati organizzavano le nozze presso il Comune di competenza e, nel giorno stabilito, con la compartecipazione di testimoni fittizi, aveva luogo il matrimonio tra i finti sposi (fatti documentati da videocamere nascoste)i quali, poi, decorsi i termini di legge, si attivavano subito per il procedimento di separazione e poi di divorzio.