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Coronavirus. C'è la prova: è il lockdown ad aver cambiato il virus

Paolo Viana venerdì 5 giugno 2020

E' difficile immaginare che un virus evolva. In primo luogo perché un virus non ha un’intelligenza e noi siamo abituati a cercare una ratio in ogni cambiamento. E poi, perché le mutazioni di un organismo composto da poche proteina non possono essere viste facilmente. Tuttavia, quando, nel 1869, Charles Darwin fissò il concetto di selezione naturale non ne fece una questione di dimensioni e in queste ore ci troviamo a fare i conti con un minuscolo flagello che cambia sotto i nostri occhi e addirittura nelle nostre mani. Il Sars-CoV-2, infatti, si mostra sensibile ai nostri comportamenti e ci suggerisce, se non una ratio, certamente un metodo di lavoro per il futuro.

Dicendoci, ad esempio, che i contrastatissimi divieti del governo e delle Regioni funzionano: sono una barriera selettiva che condiziona la frequenza delle mutazioni. Non ne determinano la tipologia: l’attenuazione del morbo di cui tanto si parla dipende dai meccanismi di replicazione del Rna virale ed è pertanto una variabile indipendente dal lockdown, ma quest’ultimo agisce sui tempi in cui essa si esprime. Che il virus muti e che attenui la propria aggressività è oramai un dato clinico, come hanno rilevato nei giorni scorsi il primario del San Raffaele di Milano Alberto Zangrillo e l’infettivologo del San Martino di Genova, Matteo Bassetti. Qualche ora prima, a Brescia, il virologo Arnaldo Caruso individuava nel sangue di un paziente asintomatico «modificazioni fenotipiche dei virus che li rendono meno aggressivi», annunciando di aver trovato «un ceppo di Sars-CoV-2 meno virulento su colture cellulari ».

Ossia, quel virus “attenuato” che si attendeva da quando gli italiani si sono chiusi in casa. Adesso viene pubblicato uno studio italo-americano che dimostra l’efficacia del lockdown e offre dei suggerimenti agli Stati per modulare la resilienza dei sistemi sanitari alle pandemie. La ricerca, pubblicata in pre-print, è firmata da Maria Pacchetti, Bruna Marini, Fabiola Giudici, Francesca Benedetti, Silvia Angeletti, Massimo Ciccozzi, Claudio Masciovecchio, Rudy Ippodrino e Davide Zella che lavorano tra Trieste, Roma e Baltimora. Mette in relazione il tasso di mortalità e i test effettuati sulla popolazione con il lockdown, le mascherine e le altre soluzioni escogitate per contenere il virus da gennaio 2020 ad aprile 2020 in Italia, Spagna, Germania, Francia, Svezia, Regno Unito e Stati Uniti.

«Le diverse strategie di blocco e la capacità di test PCR (il test della polimerasi a catena è quello più efficace, ndr) – sono le conclusioni – hanno influenzato il tasso di mortalità dei casi e la diffusione delle mutazioni virali». Più nel dettaglio, «si nota la stabilizzazione di un chiaro schema di mutazioni» e si registra che «rigide strategie di blocco insieme ad un ampio test diagnostico PCR della popolazione sono correlate con un rilevante calo del tasso di mortalità dei casi in diversi Paesi». La ricerca ha individuato tre diversi andamenti: la Germania ha un tasso di mortalità normalizzata molto basso (0,31%), Italia, Usa e Spagna un valore intermedio (1,62%) e Francia, Svezia e Regno Unito quello più alto (3,49%).

«Le curve del tasso di mortalità – si legge – possono essere spiegate principalmente dalle diverse politiche attuate da ciascun Paese. A sostegno di questa ipotesi si osserva che nei Paesi del gruppo 3, dove il blocco non è stato attuato (Svezia) o è stato adottato in ritardo, e dove sono stati eseguiti meno test PCR Sars-CoV-2 (Regno Unito e Francia), il CFR normalizzato è superiore a quello degli altri gruppi». Il lockdownnon condiziona solo l’impatto del virus sulla popolazione ma anche le sue mutazioni: gli scienziati non lo dicono, o almeno non in termini così perentori, ma hanno individuato delle mutazioni “non sinonime” che sono quelle che maggiormente risentono dei condizionamenti esterni. Loro si limitano a segnalarle, senza spiegarle, per adesso. Analizzando il genoma dei pazienti osservano tra l’altro che il numero delle mutazioni «aumenta nel tempo durante la diffusione fuori dall’Asia, e sembra stabilizzarsi in aprile» e che «lo schema cambia in modo piuttosto drammatico da gennaio a febbraio. Parte dei genomi analizzati nel gennaio 2020 appartengono a pazienti infettati in Cina o a pazienti a stretto contatto con chi viaggia o torna dall’Asia. A febbraio, la maggior parte dei Paesi ha deciso di sospendere i voli da e per la Cina e, dopo, sono state mantenute solo poche comunicazioni tra le nazioni e in questo mese si sono verificati casi di epidemie trasmesse localmente.

Abbiamo osservato uno schema di mutazioni ricorrenti che ha raggiunto una distribuzione omogenea tra i diversi Paesi nel marzo 2020. È probabile che le politiche di blocco abbiano ridotto notevolmente l’ulteriore diffusione virale dall’Asia e abbiano ostacolato la miscelazione dei ceppi di Sars-CoV-2 tra i vari Paesi». Sia Zella che Ciccozzi sono concordi sul fatto che esiste un’influenza delle strategie di blocco sull’andamento del virus, per quanto non ammettano ancora un link con le mutazioni genetiche, e sottolineano che serve molta cautela nel riaprire le frontiere: «Andrebbero rafforzate le strutture epidemiologiche di territorio in relazione al problema dei focolai internazionali: va considerata attentamente la mobilità internazionale del Covid-19, anche se la situazione sta decisamente migliorando, ma non possiamo ancora considerare “chiusa” la pandemia».