Attualità

L'ESPERTO. «Professione capo di gabinetto, patologia della politica debole»

Giovanni Grasso venerdì 18 ottobre 2013
Le "magagne" e i vizi nascosti dell’alta burocrazia sono ben noti al professor Stefano Sepe,  docente alla Scuola nazionale dell’amministrazione e curatore nel 2006 (insieme a Giovanni Vetritto) di un interessantissimo libro Le stanze del potere, edito da Rubbettino, che disegnava la mappa del potere nascosto all’ombra dei ministeri. «Sono cambiati i nomi ma non le consuetudini», racconta Sepe, che spiega: «Durante la cosiddetta Prima Repubblica la funzione di mediazione tra la politica e l’elettorato, tradizionalmente svolta dalla pubblica amministrazione, è stata esercitata prevalentemente dai partiti e dai sindacati. Ciò ha comportato un doppio fenomeno: la deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione, e una sua fidelizzazione nei confronti dei politici. Per fare carriera bisognava dire dei sì ai ministri di turno, che però – salvo eccezioni – erano dei veri professionisti della politica. Difficile insomma immaginare politici del calibro di un Fanfani o di un Andreatta pendere dalla labbra del loro capo di gabinetto o di un direttore generale». E poi cosa è successo?Con l’avvento della Seconda Repubblica è apparsa sulla scena una classe politica nuova che non proveniva più dal percorso di formazione nei partiti o dalla trafila negli enti locali. E, per lo più, sprovveduta da un punto di vista giuridico e amministrativo. I politici, non fidandosi di una amministrazione lenta e inefficace, hanno preferito ricorrere per la guida degli uffici di diretta collaborazione (essenzialmente capi gabinetto e capi dell’ufficio legislativo) a consiglieri di Stato, della Corte dei Conti, magistrati ordinari, consiglieri parlamentari, avvocati dello Stato e così via. Persone di grande preparazione giuridica, capaci di districarsi con competenza nella giungla normativa e in grado di offrire una solida rete di protezione al ministro di turno.Fin qui niente di male... La patologia è emersa quando questi super esperti hanno consolidato il proprio potere al punto da trasformarsi in ceto e  diventando di fatto inamovibili. È quel fenomeno dei professionisti del gabinettismo, di cui ha scritto bene Ignazio Portelli. Ci sono casi di giudici amministrativi che sono arrivati ai vertici della loro carriera, che hanno passato la quasi totalità della loro vita professionale nei ministeri, conservando per giunta il doppio incarico. E capi di gabinetto che hanno servito per moltissimi anni sotto diversi "padroni", anche di segno politico opposto. Se l’inamovibilità è uno dei mali della pubblica amministrazione lo è diventato anche per i gabinetti. Alla lunga si creano incrostazioni, rendite di potere e opacità insostenibili. Oggi come descriverebbe la geografia del potere nei ministeri?I gabinettisti oggi hanno il compito essenziale – di fronte a una burocrazia che funziona male e raramente si prende responsabilità – di coprire le spalle ai ministri. Lo fanno egregiamente, ma la loro competenza li porta a sconfinare fino a sostituirsi a volte al potere politico. In tutto questo la burocrazia ministeriale come reagisce?I gabinettisti sono temuti e odiati dai dirigenti dei ministeri, che reagiscono quando possono bloccando le decisioni del vertice politico, mettendo in sostanza i bastoni tra le ruote. Ma è anche vero che le carriere dei dirigenti sono ancora legate alla politica e gli uffici di diretta collaborazione di fatto costituiscono l’anello di congiunzione tra la burocrazia e i ministri.  In un solo caso gabinettisti e burocrati sono sempre dalla stessa parte:  quando si tratta di ottenere dalla politica aumenti di stipendio, benefici e prebende. Anche attraverso leggine, diciamo così, "ad personas".Nei suoi scritti lei ha denunciato una sorta di dittatura dei giuristi nella pubblica amministrazione...Il giurista è una figura importantissima e, direi, indispensabile, ma tende direi naturalmente ad affrontare le questioni dal punto di vista formale. Non si vede perché, allora, ai vertice dei gabinetti ministeriali non possano accedere anche manager, economisti, ingegneri gestionali, statistici, ecc.,  che darebbero alla pubblica amministrazione una forte spinta nel senso dell’innovazione.