Bufera sull'alienazione parentale. L’Oms conferma: non è tra le patologie riconosciute
Qualche giorno fa l’Oms ha formalizzato l’esclusione dell’alienazione parentale dall’elenco delle patologie riconosciute. Nel cosiddetto Icd 11, la lista delle malattie, la Pas (acronimo dall’inglese parental alienation syndrome) non ha diritto di cittadinanza. La stessa scelta era già stata fatta dal Dsm 5, la 'bibbia' della psichiatria mondiale. Perché è importante questa notizia? Perché di alienazione parentale si continua molto a dibattere in tutte le vicende giudiziarie che si occupano di separazione e di allontanamento dei minori. Sono circa 60mila i procedimenti ogni anno che, dalla decisione dell’Oms, potrebbero subire ripercussioni non trascurabili in termini di ritardi o di ridefinizione delle cause. Il tema è anche all’ordine del giorno della Commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio presieduta da Valeria Valente che ha selezionato 572 fascicoli per accertare come la violenza sulle donne venga letta e riconosciuta nei tribunali. Il timore è che, anche alla luce di un fraintendimento sul fenomeno della Pas, la violenza spesso venga derubricata a semplice conflitto, con conseguenze negative per la sorte delle donne e dei figli allontanati. Ma è davvero così? Alla Commissione d’inchiesta è arrivato qualche giorno fa un corposo memorandum firmato da 130 avvocati, psicologi forensi, accademici e professionisti della materia (si può leggere integralmente sulla rivista on line Filodiritto). Un documento che ha sollevato le proteste di decine di associazioni di genitori perché, pur riconoscendo che la Pas non è una sindrome, sostiene che si tratta di un 'disturbo del comportamento relazionale' molto diffuso. «Si tratta di un’autodifesa corporativa», sostiene, tra le altre, l’associazione 'Padri in movimento'. No, è la risposta, fingere che non esista significa non avere a cuore le sorti processuali di migliaia e migliaia di bambini.
Perché tutto questo clamore intorno alla Pas e al memorandum?
Non è né una malattia né una sindrome dal punto di vista strettamente scientifico ma – risponde Gugliemo Gulotta, psicologo forense tra i più noti in Italia, che è tra gli ispiratori del documento – è certamente un problema relazionale. I genitori che entrano in conflitto non fanno del bene alla salute dei loro figli bambino, trattati spesso come ostaggi o come medaglie al valore.
Negare l’esistenza dell’alienazionale parentale significa negare che esistano genitori collocatari capaci di influenzare negativamente il figlio ai danni dell’altro genitore?
Purtroppo quello è il rischio. E si tratterebbe di un’implicazione ingannevole. Il comportamento ostracistico delle madri o dei padri verso l’altro genitore esiste. La Cassazione afferma (sentenza n.6919) che non compete ai giudici definire la validità di teorie scientifiche sulla Pas. D’altra parte la Corte di Strasburgo ha più volte condannato l’Italia per non aver consentito a tanti padri di vedere regolarmente i figli a causa del comportamento ostacolante da parte della madre.
La sindrome da alienazione parentale (Pas) è stata teorizzata negli anni ’80 da Allan Gardner, psichiatra Usa che, secondo gli accusatori, fece fortuna difendendo padri accusati di abusi sessuali. La comunità scientifica, Oms compresa, ha da tempo stabilito che questa sindrome non esiste perché non se ne possono definire scientificamente i sintomi. Questo però non significa che i condizionamenti da parte dei genitori separati siano inesistenti.
Perché questa battaglia allora?
C’è chi vorrebbe arrivare a dire: visto che non c’è nel Dsm 5 e nell’elenco dell’Osm allora vuol dire che gli atteggiamenti ostacolanti da parte delle madri, o dei padri, non esistono. Ma si tratta di pretese fuori dalla realtà.
Cosa contestate a proposito del concetto di violenza?
Diciamo che non sempre la violenza percepita è anche attuata. I casi sono drammaticamente in aumento e vanno sempre condannati, ma i termini dal punto di vista giuridico, vanno usati in modo corretto.
Perché tanti errori giudiziari nelle sentenze sui minori
Da parte dei giudici c’è la tendenza negativa ad assumere nelle sentenze la decisione espressa nelle relazioni dello psicologo, evitando di decidere in autonomia.
Perché è sbagliato?
Lo psicologo non ha competenze per decidere se un fatto sia accaduto o no. Quando si chiede al perito: 'dica se il bambino è attendibile', l’errore sta nella delega implicita, come se il giudice chiedesse: dimmi cosa devo fare. Così gli psicologi sono investiti di un potere che non compete loro. E poi ci sono tanti psicologici bravi in psicologia clinica che si avventurano in psicologia forense con relazioni tutt’altro che esemplari. Sulle Ctu (consulenze tecniche d’ufficio) occorre fare molte attenzione. Spesso sono dissonanti e assumono le denunce senza le valutazioni del caso.