Trent'anni di dolore. Borsellino, l'anniversario divide ancora Palermo
Trent’anni di dolore, di ombre, di processi e di speranza. Trent’anni, da quel giorno che rivive, nel cuore di chi c’era, come in quello di chi è arrivato dopo, con le sue sequenze drammatiche in rapida successione. Ieri, alla vigilia dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino, l’Agesci ha organizzato la manifestazione 'Costruttori di memoria operante'. La notte di via D’Amelio è stata rischiarata da canti e preghiere, durante la Messa celebrata dall’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice.
Ecco un passaggio del suo discorso a braccio: «Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza come il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione individuale e collettiva. Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro 'soci', ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte». Erano le cinque di pomeriggio, meno qualche minuto, il 19 luglio 1992. Improvvisamente, Palermo venne scossa da un boato. Si sollevò una nuvola di fumo, visibile da tutti i punti di osservazione. I palermitani furono subito turbati.
Salvatore Borsellino alza al cielo l’'agenda rossa', riferimento a quella del fratello, sparita - .
Quasi due mesi prima avevano vissuto un trauma nazionale: il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, il magistrato Francesca Morvillo, e tre uomini della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, assassinati in autostrada, all’altezza dello svincolo di Capaci, dal tritolo della mafia. Da quel tragico 23 maggio, gli occhi di tutti finirono sull’amico e 'gemello' di Falcone, l’uomo che ne aveva condiviso battaglie, successi e sconfitte. Si trattava del giudice Paolo Emanuele Borsel- lino, il magistrato che, nella percezione di molti, era più a rischio. Le prime notizie offrirono lo scarno e drammatico resoconto di un attentato dinamitardo. «È stato coinvolto un magistrato» si disse. Non si disse ancora che il luogo dell’esplosione era via Mariano D’Amelio, una strada residenziale e tranquilla, oggi, a pochi passi dall’hub dei vaccini anti-Covid della Fiera del Mediterraneo.
Passò un tempo angosciato, fino al tragico dispaccio che diede una forma compiuta alla strage. Paolo Borsellino era morto. Era al citofono, davanti al palazzo abitato dalla mamma, Maria Pia Lepanto, e dalla sorella, Rita, quando la bomba di Cosa nostra esplose. Con lui vennero spazzati via gli agenti della scorta: Agostino Catalano, Eddie Walter Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina. È sopravvissuto soltanto l’agente Antonio Vullo con le sue ferite, nel corpo e nell’anima. Sarà proprio Vullo a rivivere, per sempre, gli ultimi istanti. Il giudice che scende dalla macchina, che si accende la sigaretta e che va incontro alla sua morte. A trent’anni di distanza, Toni Vullo racconta ancora, come se fosse ieri, con la stessa intensità: «Ho visto il giudice che suonava al citofono esterno del palazzo.
Via D’Amelio dopo la strage - Ansa
Aveva una faccia contratta, era preoccupato. Erano giorni difficili. Poi, si è scatenato l’inferno». Tanti gli appuntamenti in agenda anche oggi. Alla commemorazione sarà presente il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, che incontrerà le ragazze e i ragazzi che partecipano all’iniziativa 'Coloriamo via d’Amelio', organizzata dal Centro Studi Paolo e Rita Borsellino. Stamattina, alle dieci, il capo della polizia Lamberto Giannini deporrà una corona d’alloro all’interno dell’ufficio scorte della Questura; alle undici, in Cattedrale, la messa officiata dall’arcivescovo. In serata si svolgerà invece la tradizionale fiaccolata da piazza Vittorio Veneto in via D’Amelio organizzata dal Forum 19 luglio. «Sono passati trenta lunghi anni senza verità – dice Salvatore Borsellino, fratello del giudice –. Sono stati celebrati numerosi processi ma ancora attendiamo di conoscere tutti in nomi di coloro che hanno voluto le stragi del ’92-93.
Abbiamo chiaro che mani diverse hanno concorso con quelle di Cosa Nostra per commettere questi crimini ma chi conosce queste relazioni occulte resta vincolato al ricatto del silenzio. Ora chiediamo noi il silenzio. Silenzio alle passerelle. Silenzio alla politica». L’ultima sentenza del tribunale di Caltanissetta, nel processo sul depistaggio, ha dichiarato prescritte le accuse a due poliziotti, assolvendo il terzo. Un pronunciamento che ha provocato la reazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni: «Come sorella di Giovanni Falcone e come cittadina italiana, provo una forte amarezza perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica». «Uno Stato che non riesce a fare luce su questo delitto non ha possibilità di futuro. Dopo trent’anni di depistaggi e di tradimenti noi non ci rassegniamo e continueremo a batterci perché sia fatta verità sull’uccisione di nostro padre – ha detto, qualche settimana, fa Fiammetta Borsellino, indomita figlia del magistrato –. È per questo motivo che la mia famiglia ha deciso di disertare le cerimonie ufficiali sulle stragi del ’92, non a caso mia madre non volle funerali di Stato, proprio perché aveva capito...».
Diverse le domande ancora senza risposta. Che fine ha fatto l’agenda rossa, il diario su cui il giudice annotava le cose importanti? C’è il marchio insanguinato della mafia, ma è stata davvero solo Cosa nostra a organizzare la strage o ha potuto contare sul concorso di altre entità? Punti interrogativi che rinnovano l’angoscia di tutti e il dolore di chi perse qualcuno che amava. Trent’anni dopo, come se fosse ieri.