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Il caso del trafficante. Il Viminale: «Bija arrivato con documenti falsi dalla Libia»

Nello Scavo mercoledì 9 ottobre 2019

Il trafficante libico Bija, al centro di una vicenda poco edificante (Avvenire)

Più che una storia da 007, la versione fatta circolare ieri da fonti del Viminale sembra uscita dalle tragicomiche avventure alla Austin Powers. Il comandante Bija, infatti, avrebbe ottenuto il visto per l’Italia fornendo al momento della domanda «delle generalità diverse da quelle reali, probabilmente presentando un documento falso».

Se lo scaricabarile era prevedibile lo è meno la giustificazione "sussurrata" ieri, a cinque giorni dalla prima puntata dell’inchiesta di Avvenire. «I membri della delegazione - precisano le fonti all’agenzia Ansa – sono stati decisi dai libici stessi. Ed inoltre, aggiungono, tutti i membri, compreso dunque Bija, sono entrati in Italia con un regolare visto d’ingresso concesso dalle autorità italiane preposte». Sfortunatamente, dai successivi controlli «è emerso infine che Al Milad avrebbe ottenuto il visto fornendo al momento della domanda delle generalità diverse da quelle reali, probabilmente presentando un documento falso». Fino ad ora non è stata diffusa la copia del «probabilmente» documento falso, che se fosse tale certamente dovrebbe trovarsi in qualche archivio.

Per le fonti del ministero dell’Interno «fu l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) a chiedere l’incontro che si tenne al Cara di Mineo tra una rappresentanza delle autorità italiane e una delegazione libica della quale faceva parte anche Abd Al-Raman Al-Milad, conosciuto come “Bija” e ritenuto dall’Onu figura di vertice delle organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani in Libia». Al contrario, dall’Oim con una nota ufficiale da Ginevra hanno sostenuto lunedì che l’incontro fu richiesto dal Viminale. Ieri, tuttavia, l’Oim non ha voluto commentare le dichiarazioni di fonti non identificabili del ministero dell’Interno.

Nuovi elementi sono arrivati ieri dalla Iene, la trasmissione di Italia 1 che in un servizio di Gaetano Pecoraro ha mostrato documenti e numerose interviste in Libia che confermano come Bija e le sue attività criminali fossero più che note prima della visita in Italia. Il giornalista ha anche mostrato uno studio del Ministero della Difesa italiano antecedente alla visita della delegazione libica in Italia. «Un dossier dell’intelligence austriaca (Agenzia Hna) riporta gli accordi e i traffici tra la Guardia Costiera e – si legge nel testo del 10 maggio mostrato dalle Iene – le organizzazioni di Ahmed Dabbashi, Mussab Abu Ghrein (a Sabratah) e Abdurahman Milad (alias Bija, a Zawyah) per lo sfruttamento del business dei migranti».

Il volto e la storia di Bija, dunque, erano noti ai servizi di sicurezza europei e la falsa identità per reggere avrebbe dovuto contare sulla complicità dei 13 suoi connazionali con cui è arrivato in Italia, con la connivenza dei funzionari della Mezza Luna rossa tunisina e dell’Oim, presenti ai meeting a porte chiuse. Ma proprio l’organizzazione internazionale delle migrazioni, nella sua nota pubblicata ieri da Avvenire, ha ricordato il «rammarico» per la presenza del boss in quella delegazione.

Comunque siano andate le cose, la versione "semiufficiale" del Viminale deve fari i conti con la realtà in Libia. Nonostante la presunta beffa, da due anni le autorità italiane ed europee continuano a collaborare con la cosiddetta Guardia costiera libica, tra cui quella di Zawyah guidata da Bija indicato, anche in inchieste recenti, tra i capi del campo di prigionia finanziato da Roma e Bruxelles.



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