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OPPOSIZIONE IN BILICO. Bersani cela la delusione: 2,5 più delle europee

Roberta D’Angelo martedì 30 marzo 2010
Ci spera fino all’ultimo Pierluigi Bersani. Chiuso nel suo studio con Massino D’Alema e i vertici del partito, sfoglia i dati delle regioni, e segna nel pallottoliere del Pd ogni punto messo a segno. Ma Piemonte e Lazio sono persi. È quella la grande sconfitta che brucia a tarda sera, quando il leader democratico annulla l’incontro con la stampa e lo rinvia a oggi, a mente fredda. Chiede tempo per ragionare su quella che il Pd si ostina a non leggere come una sconfitta. Non fosse altro che per i dati di lista, che lo vorrebbero avanti rispetto al Pdl.La delusione è tanta, se si guarda al dato assoluto. La vittoria per 7 a 6 non è quello che Bersani sperava. Anche se il Pd avanza e le regioni guidate dal centrosinistra restano più numerose di quelle del centrodestra, la coalizione perde di fatto quattro regioni e di notevole importanza. Ma «l’inversione di tendenza c’è stata», insiste il segretario del Pd, dati alla mano. Specie se si pensa ai pronostici di un paio di mesi fa, quando il vicesegretario Enrico Letta temeva una sconfitta per otto a tre.Il vento, dunque, accenna a cambiare davvero, come aveva detto venerdì Pierluigi Bersani, il primo dei tre segretari del Pd a registrare una vittoria elettorale. Anche se non è così forte da far veleggiare la nave democratica. «La crisi è alle spalle», conferma Franco Marini: «Vedo una vitalità che prima non c’era», commenta l’ex presidente del Senato. Insomma, dopo la sconfitta sonora veltroniana e quella contenuta di Franceschini, il terzo leader ha già pronto il discorso, che non vuole essere di circostanza.Perché i fatti gli danno ragione, spiega con il primo bilancio in mano il coordinatore Maurizio Migliavacca: «Al termine dello scrutinio il Pd potrebbe essere il primo partito d’Italia». Di fatto, dice, «avanza di 2,5 punti rispetto alle europee e, con le liste dei presidenti del Pd, è intorno al 30%, mentre c’è un sensibile calo del Pdl non compensato dalla Lega», spiega il dirigente dei Democratici. Insomma, «la leadership di Bersani non è mai stata in discussione, ma anzi, ne esce rafforzata».Ma che qualcosa potesse andare meglio, il Pd lo aveva sperato ieri ponmeriggio. Fino all’ultimo si ragiona sul 7 a 4 nel partito. Un risultato che – a prescindere da Lazio e Piemonte, in bilico fino a notte – «vuol dire che la maggioranza delle Regioni è di centrosinistra», ripete Letta. Il ragionamento, dietro alle stanze chiuse, però, si spinge oltre.Si passano al setaccio tutte le ipotesi. Ma alla fine, la riflessione più preoccupata viene dedicata all’avanzata leghista. Non si tratta solo di un problema di Berlusconi. La prima a dare voce al problema è Debora Serracchiani: «Bisogna affrontare la questione del Nord». Un campanello d’allarme già suonato nel Pd dopo le politiche. Lo stesso Cacciari aveva sollevato la questione settentrionale, raccolta da più parti, ma mai affrontata in pieno. «La crescita impetuosa del partito dell’astensione e l’avanzata del Carroccio – per l’eurodeputata – dovrebbero imporre una profonda e onesta riflessione». Concorda il senatore Stefano Ceccanti: «Se al sud la protesta contro Berlusconi sfocia nell’astensione, perché non c’è la Lega, al nord quello che perde il Pdl lo intercetta Bossi, mentre noi restiamo a guardare». Un tema da approfondire a seggi smontati. Così come si affronteranno i problemi dell’alleanza, con il "laboratorio" pugliese, invocato a gran voce dall’ala radicale del Pd.