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REPORTAGE. Benvenuti a Tor di Quinto la Roma degli “invisibili”

Giovanni Ruggiero martedì 8 febbraio 2011
Ci sono ancora le pozzanghere dell’ultima volta che è piovuto a Roma. C’è il sole, ma non basta ad asciugarle. È un pezzo di terzo mondo a Roma, a Tor di Quinto, tra caserme e circoli di equitazione. Il campo rom – uno di quelli "a rischio" – è qui da più di vent’anni e, a seconda delle circostanze, si gonfia e si sgonfia come un otre. Baracche e misere casupole, coperte con cartoni e teli di plastica, qualche roulotte, panni stesi e i bagni azzurri allineati sul ciglio della strada, qualche macchina di chi è più ricco, che ha anche qualche dente d’oro. E pensare che dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani per mano di Romulus Mailat (fu nel 2007, proprio in questa zona) tutti dissero: mai più campi abusivi. Qui, tra gli snodi stradali, invece, vivono ancora più di 150 persone. All’origine erano tutti rom della Serbia, molti macedoni e kosovari. Adesso, invece, i romeni sono in maggioranza. Sono i nuovi arrivati: pagano una forma d’affitto ai vecchi abitanti che si ritengono un po’ i proprietari del campo. Provenivano da Monte Antenne, ma qui sono nate ormai due generazioni: quelle generazioni corte e veloci dei rom che si sposano giovanissimi. Come fece anche Danka Djorgevic. Ha 50 anni, ma gliene dareste molti di più. Danka, capelli come il carbone con appena qualche filo di bianco, ha 9 figli. E i nipoti? «Saranno – dice – una cinquantina». Ci pensa su: «Sì 50. Più o meno siamo lì». Sono tutti nati in Italia. Qualche figlio ha fatto anche il militare, «ma il governo – dice Danka – non ci aiuta per niente. Chiediamo inutilmente un sussidio e una casa».Inserirsi da qui non è facile. Ecco i suoi ragazzi e quelli degli altri che, armati di buone intenzioni, salgono le scale che li portano sulle strada da dove l’autobus 233 li porta nel cuore di Roma, una città che non li accetta. Qualcuno ce la fa: sua figlia Silvana ha studiato e poi c’è Dilan, uno della "cinquantina", che studia all’Alberghiero con buoni risultati.Qualcuno, come Danka, è venuto dai Balcani. Tutti gli altri sono nati in Italia, ma pochi hanno i documenti. Johnny Iovanovic ha 18 anni. È nato a Roma e qui è nata anche sua figlia, Tiffany, ma non sono cittadini romani. Suo padre, Billy, ha 35 anni, vende fiori dove può e quando può. «Nessuno – aggiunge – starebbe qui, ancora in questa puzza, con l’acqua razionata e senza elettricità. Anche noi vorremmo una casa. Ma chi ce la dà?». Billy Iovanovic guarda negli occhi fissi ed è capace di amara e feroce ironia: «Hai visto – chiede – i bambini che stanno qui? Li abbiamo rubati tutti». E non sorride. L’amarezza lo trattiene.Fuori le baracche la gente cucina e il profumo del cibo copre il tanfo che è nell’aria. Fra poco arriveranno con un pulmino i ragazzi della scuola. Ma non a tutti piace stare in classe. Lo sforzo più difficile dell’Arci, che ha avviato qui un programma di scolarizzazione, è proprio quello di vincere i riottosi che sono tanti. Cosa rende così difficile sconfiggere i "terzi mondo" che sono tra le nostre belle case? Il sindaco Alemanno lamenta difficoltà burocratiche e giudiziarie che, ad esempio, hanno impedito la realizzazione di un campo a La Barbuta. Si riferisce, il primo cittadino, ai 5 ricorsi al Tar che ha intentato il comune di Ciampino. In luogo dei campi, però, si comincia da tempo a parlare di vere case che sono il primo gradino dell’integrazione che, comunque, non è immediata. La pensano così all’Opera Nomadi. Il loro presidente, Massimo Converso, è diretto: «Con i soldi spesi per i campi si sarebbero potute fare delle case vere e proprie. I ministeri che si occupano della questione rom in Italia sono ancora convinti che queste comunità siano quelle che vivono nelle baraccopoli. In realtà la maggioranza vive già in case. Nei campi è rimasta solo una minoranza». Quella che muore. Quella che chiamiamo nomade, ma la parola nomade non piace a don Enrico Feroci, direttore della Caritas romana. Fa credere che i rom vogliano vivere in roulotte. «L’integrazione – dice – passa per una vera casa che rende possibile la scolarizzazione. Ma dei rom dovrebbe occuparsi un’autorità non politica che non deve operare pensando al consenso elettorale. In questo modo è possibile pensare a progetti che non siano semestrali, ma di più lungo respiro: decennali o quindicinali. L’integrazione vuole tempi lunghi».Le comunità rom sono giovani. Prendete la famiglia Iovanovic: dal nonno alla nipotina, in 35 anni appena. «Occorre – dice, riferendosi proprio ai giovani, Daniela Pompei di Sant’Egidio – una politica fondata sulla continuità: partire dai bambini con tempi necessariamente lunghi che portino all’integrazione mediante la scuola. Bisogna parlare, parlare e parlare. Non solo ai genitori dei piccoli rom, ma anche a quelli degli altri bambini. Va sconfitta la cultura dell’anti-gitanità». Ma pare sia difficile far capire che giovani come Johnny non hanno nessuna necessità di rubare le loro Tiffany ad altri papà.