Africa. Piano Mattei: bene gli aiuti, ma non è l'alternativa all'emigrazione
È una buona cosa sostenere lo sviluppo dell’Africa. Il fatto che se ne discuta seriamente, insieme ai leader africani, che si elabori un piano di aiuti pluriennale, che si preveda di stanziare risorse sostanziose: tutto questo va nella giusta direzione. Purché si tenga conto della preoccupazione delle Ong: rispettare l’impegno di dedicare alla cooperazione internazionale lo 0,70% del Pil, senza dirottare risorse dalla cooperazione alle imprese private.
Ciò che non torna nel piano Mattei è però l’obiettivo sotteso, neppure troppo velato: che mediante gli aiuti si possano fermare le migrazioni dall’Africa verso l’Europa. È sbagliata la lettura del fenomeno e inefficace la terapia. Sul primo versante, i riflettori puntati sull’Africa come fonte di migrazioni massicce e insostenibili deriva dall’allarme sbarchi. Ma gli sbarchi, e gli ingressi di rifugiati, sono solo una modesta frazione di un fenomeno migratorio molto più ampio, nel complesso stabile nei numeri da una dozzina d’anni: gli immigrati residenti sono circa sei milioni, compresi gli irregolari, e da anni non aumentano più, tanto che si lamenta una carenza di manodopera.
Richiedenti asilo e rifugiati erano 340mila a fine 2022, ora presumibilmente 400mila o poco più: meno del 10% del totale, comprendendo circa 150mila profughi ucraini. I residenti stranieri originari dell’Africa sono poco più del 20%, ma la maggioranza provengono dal Nord-Africa, con il Marocco in testa. Gli sbarchi sono un fenomeno drammatico, ma incidono molto poco su questi numeri. E, non va dimenticato, avvengono in mancanza di altre soluzioni per cercare scampo in Europa. Quanto alla terapia, l’idea di un investimento nei luoghi di origine per offrire un’alternativa all’emigrazione, intervenendo sulle cause delle partenze, si scontra con tre contraddizioni. La prima deriva proprio dai nostri fabbisogni di forza lavoro, non più colmati dagli apporti dell’Europa Orientale. Salvo immaginare una catastrofe economica, è inevitabile prevedere per il futuro un consistente arrivo di immigrati extra-europei. La seconda contraddizione deriva dalle guerre, dalle repressioni e dall’instabilità di vaste regioni africane.
Basti pensare al Sudan, terreno di un conflitto interno dimenticato: mezzo milione di profughi sono già riparati in Sud Sudan. Aiuti, sviluppo, promozione della pace, contrasto delle politiche predatorie che alimentano i conflitti: tutto questo servirà, ed è altamente auspicabile, ma non produrrà frutti immediati. Si incontra qui la terza contraddizione: gli studi sul rapporto tra sviluppo economico e migrazioni spiegano che in una prima fase il miglioramento delle condizioni di vita in un paese produce un aumento dell’emigrazione. Più persone accedono alle risorse necessarie per partire, ottengono un’istruzione che apre orizzonti e accresce le competenze spendibili, maturano nuove aspirazioni che non possono ancora soddisfare sul posto. Solo nel lungo periodo uno sviluppo stabile riesce a offrire alternative credibili all’emigrazione.
C’è in realtà un modo per ottenere risultati immediati nel contrasto delle migrazioni indesiderate, come quelle dei profughi africani (non immigrati illegali, come si continua a ripetere). È il finanziamento dei governi dei paesi di origine, e soprattutto di transito, affinché stronchino i flussi di esseri umani che cercano altrove una vita dignitosa. Gli aiuti possono tradursi, come si è già visto con Libia e Tunisia, in forniture militari e addestramento delle forze di sicurezza. Possono di fatto finanziare il ricorso alla violenza e alla detenzione arbitraria per fermare le persone in viaggio verso l’Europa. Servono dunque più attenzione, più dialogo, più investimenti per l’Africa, ma indirizzandoli nella direzione di uno sviluppo umano senza secondi fini e senza cinismi inconfessati.