Sanità. Batteri che resistono agli antibiotici. «È la vera emergenza mondiale»
La professoressa Evelina Tacconelli
La vera emergenza mondiale sono i batteri “cattivi”, quelli che hanno imparato a resistere agli antibiotici: i farmaci che fino a poco fa erano in grado di sconfiggerli ora non hanno più effetto. “Se la prossima pandemia dovesse essere causata da batteri resistenti agli antibiotici ci troveremmo inermi”, avverte Evelina Tacconelli, professore ordinario e direttrice dell’Unità di Malattie Infettive dell’azienda ospedaliera universitaria di Verona, nonché responsabile di numerosi progetti di ricerca sulle infezioni antibiotico-resistenti all’università tedesca di Tubinga, “ma per capire quanto sia grave la situazione non occorre pensare a una pandemia come quella di Covid: non avere più antibiotici efficaci contro le infezioni batteriche, purtroppo frequentissime negli ospedali italiani dopo ad esempio una banale operazione, è un problema che apre un baratro nella vita dei pazienti”. Una tragica retromarcia nel passato, quando ancora eravamo impotenti contro malattie infettive poi rese inoffensive proprio dalla scoperta degli antibiotici. E un allarme che dovrebbe togliere il sonno ai vertici delle politiche sanitarie, “eppure da anni è passato sotto silenzio”.
Il problema incredibilmente riguarda soprattutto l’Italia, il Paese che in Europa ha un doppio primato negativo: è al primo posto per la diffusione di germi farmaco-resistenti acquisiti negli ospedali (i luoghi che dovrebbero in assoluto essere i più sicuri!), “tanto che tra i 29 Paesi monitorati (dati del 2015), su 33mila morti ben 11mila sono in Italia, nessuno è peggio di noi”; e inoltre è nelle ultime posizioni anche per l’abuso di antibiotici, motivo per cui da noi più che altrove hanno perso efficacia. Alla scienziata italiana l’Organizzazione mondiale della Sanità nel 2022 ha affidato il coordinamento di un gruppo di esperti di 22 nazioni con il compito di aggiornare la lista dei batteri più pericolosi per la salute umana, e quindi definire quali nuovi antibiotici è urgentissimo produrre a livello mondiale. Ruolo che l’Oms le aveva già attribuito nel 2017, alla testa di una task force presso l’università di Tubinga.
Professoressa Tacconelli, dal 18 novembre è in corso in Europa la “Settimana della terapia antibiotica”, una riflessione comune resa necessaria dalla grave situazione mondiale...
Mondiale ma soprattutto italiana. Siamo uno dei Paesi più avanzati, poi naufraghiamo in un bicchier d’acqua, anzi due: nei nostri ospedali il controllo della trasmissione di infezioni batteriche nei pazienti ricoverati è così scarso che il 65% delle infezioni antibiotico-resistenti ce le prendiamo lì. E poi in Italia la prescrizione degli antibiotici è gravata da un numero molto elevato di prescrizioni non necessarie per la cura del paziente, a causa dell’incompetenza in questo campo di molti medici. L’utilizzo senza motivo, o con dosaggio e durata sbagliata, è la causa principale della situazione drammatica in cui versa l’Italia. Quel che è peggio è che gli antibiotici rischiano di non funzionare più nemmeno per le profilassi chirurgiche, di conseguenza tutto diventa ad alto rischio: il parto cesareo, la tonsillectomia, l’operazione di appendicite...
Ma è una cosa gravissima...
Però non importa a nessuno, non vedo istituzioni, governi, ministeri urlare “basta” e implementare direttive sanitarie obbligatorie chiare, è come se non ci si rendesse conto della situazione in cui stiamo precipitando da 15 anni senza che si prendano provvedimenti. Era il 2017 quando l’ECDC, European Center for Disease Control (Centro europeo per il controllo delle malattie infettive), una specie di Istituto superiore di Sanità europeo, invitato dal nostro ministero è venuto a controllare il problema della resistenza agli antibiotici in Italia. Il rapporto finale diceva questo: “In Italia c’è un pericolo maggiore per la sanità pubblica, ma medici e autorità lo considerano inevitabile, dunque non c’è alcuna consapevolezza dell’urgenza, né una tendenza a occuparsi del problema”. Quando l’ho letto ero in Germania ed è stato uno choc, pensavo che sarebbe caduto il governo. Il rapporto continuava con “mancanza di leadership preparata e di coordinazione nazionale; rischio enorme per la chirurgia italiana, per la terapia intensiva e per i trapianti se non si fa subito qualcosa”. Che cosa si è fatto da allora? Troppo poco. L’Italia a quel punto ha istituito il primo Piano nazionale per il contrasto alla resistenza antibiotica 2017-2022 (eravamo tra i pochi Paesi al mondo a non averne uno), gestito dal ministero della Salute con le Regioni, l’Aifa, numerosi esperti, eccetera. Anche se sulla carta il Piano includeva numerose azioni per la riduzione del problema, poi non aveva i fondi per ciascuna azione, ma soprattutto non sanzionava le Regioni inadempienti: cinque anni dopo, la maggior parte degli obiettivi è lettera morta. A dicembre uscirà il nuovo Piano – sono anch’io nel tavolo dei lavori – ma, a mia conoscenza, ancora una volta non ci sono fondi dedicati alle azioni più urgenti, né sanzioni contro chi non opera per pareggiare le cure in Italia con quelle del nord Europa: oggi il nostro livello è comparabile a quello di numerosi Paesi a basso reddito economico.
Allo scadere dei cinque anni, come ci ha valutati ora l’European Center for Disease Control?
In un documento del 2021, su 29 Paesi siamo al quartultimo posto per l’uso incompetente degli antibiotici, peggio di noi solo Cipro, Ungheria e Slovacchia: ovvio che il Piano nazionale non ha sortito effetti. Anche nella prevenzione delle infezioni ospedaliere siamo quartultimi, seguiti da Bulgaria, Lussemburgo e Polonia.
La resistenza dei batteri agli antibiotici è un problema mondiale. Perché in Italia è molto più grave?
In Italia da anni gli antibiotici sono prescritti troppo e male, basterebbe vedere il divario abissale tra le quantità utilizzate da noi e negli altri Paesi: secondo il rapporto Aifa, 17 milioni di italiani nel 2021 hanno preso antibiotici, un’enormità. Il motivo è che molti medici di medicina generale li prescrivono a occhi chiusi anche quando non servono, persino quando l’infezione è virale (gli antibiotici combattono i batteri, non i virus, ndr), ma non è tutta colpa loro: nelle università non è previsto un corso obbligatorio sulla terapia antibiotica e spesso l’esame di infettivologia è solo un capitolo di altre discipline, ti puoi laureare senza saperne nulla. Gli antibiotici sono di tre tipi, pensiamo a un semaforo: luce verde a quelli semplici che non generano batteri resistenti, luce gialla “attenzione, solo se necessari”, luce rossa “solo se sono l’unica possibilità”. Purtroppo in Italia accade spesso che antibiotici del secondo o terzo tipo, i cosiddetti “cannoni”, vengano prescritti per semplici cistiti o addirittura per un’influenza virale! Ricordo che il 90% dell’uso degli antibiotici non avviene negli ospedali ma fuori, cioè prescritti dai medici di famiglia: questo abuso ha contributo in maniera importante alla selezione dei batteri resistenti. Sono errori sicuramente fatti in buona fede, ma l’ignoranza non è lecita in medicina e le linee guida vanno seguite, come avviene nelle altre nazioni europee: la medicina non è un’opinione personale, è scienza basata sulle evidenze.
C’entra anche la pressione delle case farmaceutiche?
In Italia il rapporto con le aziende del farmaco non è limpido e, a mio parere, non c’è nemmeno la cognizione corretta del conflitto d’interessi, che non è materia di studio del corso universitario. Per esempio, in una conferenza il medico che presenta un nuovo farmaco deve dichiarare come prima cosa se l’industria produttrice lo ha pagato: non è illegale, ma io lo devo sapere. All’estero si fa con estrema attenzione, nelle conferenze italiane si glissa come fosse un vezzo e qualche volta anche con qualche battuta (“prendo soldi da tutte le case farmaceutiche quindi non posso essere a favore di nessuna”). Alcuni studi dimostrano invece che se un medico ha contatti assidui con determinate aziende tenderà a prescrivere più spesso i loro farmaci, questo vale per tutte le categorie, oncologi, diabetologi, radiologi... Se addirittura riceve compensi (talora lauti) da loro, secondo me non può dare indicazioni regolatorie, né far parte di tavoli ministeriali per linee guida di terapia perché potrebbe non essere una persona indipendente nel proprio giudizio. Un errore comune è quello di credere che chi viene invitato spesso dalle case farmaceutiche lo è in quanto “esperto”. In realtà, c’è un gran numero di esperti che, per motivi etici, rifiuta compensi dalle aziende. Ripeto, non è illegale lavorare per le case farmaceutiche, ma non si può avere il piede in due scarpe.
Ma abbiamo pure il record europeo di infezioni prese in ospedale. Perché anche questa è una piaga italiana?
Sicuramente tra le cause più importanti c’è la mancanza di igiene: la massima parte delle infezioni sarebbe evitabile semplicemente con un attento lavaggio delle mani da parte di medici e infermieri, come prevedono i protocolli. Capisco che ha dell’incredibile: lo scorso anno un monitoraggio sull’igiene delle mani condotto nella chirurgia di un ospedale italiano ha evidenziato un’adesione ai protocolli del 21%. Da notare che in questi casi si va a misurare quante volte il personale sanitario si lava effettivamente le mani quando sarebbe obbligatorio farlo, ossia quando ci si aspetta un 100% di adesione! Un dato che nei Paesi del Nord Europa sfiora l’80% nella maggior parte degli ospedali: lì la severità è massima, al terzo richiamo per mancanza di igiene verificato con controlli l’ospedale chiude. Nel 2019 sono stata chiamata in Olanda, uno dei Paesi che convocano esperti dall’esterno per valutare le misure di controllo, e ricordo che un’infermiera con le unghie lunghe laccate e i braccialetti al polso era stata duramente sanzionata e la sua foto mostrata pubblicamente. In Italia in molti ospedali il personale entra ed esce ripetutamente dalle sale operatorie, risponde al telefonino, senza una reale consapevolezza di quanto questo sia grave per la vita dei pazienti. Che il 65% delle infezioni antibiotico-resistenti, le più mortali, siano acquisite dentro gli ospedali dovrebbe essere considerato uno scandalo da tutti i cittadini: un normale intervento che avrebbe richiesto pochi giorni di ricovero, a seguito di una infezione resistente agli antibiotici può impattare sulla vita del paziente per mesi, costringerlo a entrare più volte in ospedale per lo sviluppo di gravi complicazioni, magari dovrà essere riabilitato... E’ drammatico pensare che un’operazione difficile andata a buon fine può concludersi con la morte del paziente per una infezione causata dall’ospedale… Un giovane trapiantato di cuore con intervento perfettamente riuscito è morto per una sepsi da Klebsiella, un batterio acquisito in terapia intensiva: nessun antibiotico ha funzionato. Sembra di essere ai tempi di Semmelweis, il medico ungherese che a metà dell’800 scoprì che le puerpere morivano come le mosche perché i medici passavano dalle autopsie alla sala parto senza lavarsi le mani. Appena dispose la disinfezione delle mani i decessi crollarono. E’ difficile accettare che quasi 200 anni dopo discutiamo ancora di lavaggio delle mani… A volte la banalità del male è dura a morire.
Ma nell’Italia del 2022 nessuno si scandalizza?
E’ come se il cittadino italiano non avesse consapevolezza del suo diritto ad avere la stessa sanità che ha un cittadino di Oslo o di Berlino. Siamo uno dei Paesi più evoluti al mondo, ma se entro in ospedale a farmi un’operazione d’anca il mio rischio di morire per un’infezione ospedaliera resistente agli antibiotici è di 10 rispetto allo 0,1 di un paziente identico a me ricoverato in Nord Europa. Il messaggio ai politici che ci scegliamo dovrebbe essere chiaro: vuoi il mio voto? Pretendo che nell’agenda politica tu programmi che in Italia l’ospedale sia il posto più sicuro dove trattare la mia patologia. E che se mi viene dato un farmaco, io lo riceva dalla persona che ha la massima competenza possibile della prescrizione.
Quanti sono i batteri “wanted”, i ricercati speciali che ci fanno paura e contro i quali oggi non abbiamo armi?
La lista sarà pubblicata a gennaio 2023. Nel 2017 ne abbiamo individuati una dozzina, divisi in basso rischio, medio rischio e alta criticità, e questi ultimi sono 4, Acinetobacter, Pseudomonas e il gruppo degli Enterobacterales. Spesso causano la morte e possono provocare infezioni recidivanti e invalidanti. Pensiamo ad esempio a una donna che ha continue infezioni alle vie urinarie e alla quinta volta ha sviluppato uno di questi batteri farmaco-resistenti perché le quattro volte precedenti il medico le ha prescritto un antibiotico “cannone”: non c’è più alcun modo di curarla, che qualità di vita avrà? Il problema è planetario, secondo i calcoli dei massimi ecomomisti, nel 2050 i batteri farmaco-resistenti faranno 10 milioni di vittime, saranno la prima causa di morte globale. O si inverte la rotta o presto avremo a che fare con tragedie mondiali: ci siamo già, affrontare energicamente i cambiamenti necessari è inderogabile.
Ma se i classici non funzionano più, non si possono produrre antibiotici nuovi?
La produzione dell’antibiotico è complessa e richiede un forte investimento economico, che non è redditizio per la casa farmaceutica, cui conviene molto più investire nei costosi prodotti chemioterapici e reumatologici. Per questo da 15 anni le industrie hanno abbandonato l’antibiotico, al punto che in Europa è un fiorire di iniziative per convincerle a fare ricerca e produrne di nuovi. Se l’Oms ci chiede la lista dei batteri più pericolosi, è proprio per stabilire la priorità dei nuovi farmaci necessari a livello mondiale e convincere le case farmaceutiche a investire su quegli antibiotici. Intanto in Italia Aifa ha potenziato ulteriormente le sue azioni per migliorarne la prescrizione e un anno fa ha creato il gruppo “Aifa Opera” (che coordino con i colleghi di Aifa) per ottimizzare la terapia antibiotica nel nostro Paese, un passo nella giusta direzione perché non basta fare nuovi farmaci, prima bisogna ridurre drasticamente l’uso ai soli casi necessari: durante la “Settimana europea degli antibiotici” verranno divulgate le nuove linee guida per le infezioni da batteri resistenti, sia nei pazienti in ospedale sia in quelli trattati dal medico di medicina generale.
Farmaco-resistenza e vaccini: c’entrano qualcosa?
Molto. Da una parte, i vaccini per le infezioni batteriche ovviamente riducono il numero di malati e quindi le prescrizioni di antibiotici. Nel caso che invece prevengano infezioni da virus (ad esempio di morbillo o influenza), è provato che più la popolazione è vaccinata e meno antibiotico-resistenza abbiamo, e il perché è facile da capire: se in inverno ho milioni di pazienti con sintomi influenzali, molti medici prescrivono (impropriamente) l’antibiotico, nonostante l’influenza sia una malattia virale. Tant’è vero che, nei mesi freddi, antibiotici e influenza hanno il loro picco contemporaneamente.
Italia fanalino di coda, dunque, ma è a un’italiana che l’Oms affida la guida degli scienziati nel mondo.
Le persone serie in Italia sono tantissime, è importante dirlo. Anche perché è più difficile lavorare nel nostro Paese che, ad esempio, in Germania o Olanda: qui chi lavora bene deve combattere con molti più ostacoli, deve quasi essere eroico, e ce ne sono tanti, medici ospedalieri, medici di medicina generale, ricercatori… Il difetto è in alto, chi ha il potere non ha sufficiente consapevolezza dei veri problemi dei pazienti, e pure quei medici che acquistano ruoli importanti fanno casta, spesso più interessati alla propria fama che alla battaglia per i pazienti, è un mondo ancora baronale e maschilista. Se c’è una cosa che il Covid ci ha insegnato è che non bisogna aspettare troppo a correggere i problemi della sanità italiana, anche perché alla fine sono sempre i più deboli e i meno abbienti a pagare il prezzo più alto in termini di mortalità. L’Italia ha le competenze e le qualità per essere a livello dei Paesi che hanno una sanità che funziona. E’ adesso il momento giusto per ripartire e contribuire tutti ad una Sanità che sia di eccellenza, e soprattutto uguale per tutti.