La testimonianza. Bartòlo e l'incubo che ritorna: «In quei sacchi c'erano i bambini»
Il dottor Bartòlo premiato a Lerici dalla Società Marittima di Mutuo Soccorso (foto di Vittorio Baudone)
«Non è perché sono medico che non ho paura. Io ho paura quando devo aprire quei sacchi. Ne ho lì venti, cinquanta, cento, e solo nel momento in cui li apro scopro chi troverò dentro... La mia paura peggiore è che ci sia un bambino. Non sono numeri, sono persone, le vedo in faccia. Il bambino con i pantaloncini rossi mio malgrado l’ho guardato negli occhi, non lo avessi mai fatto, l'ho scosso, volevo si svegliasse, ed oggi è il mio incubo». È denso di umile umanità il racconto del dottor Pietro Bartòlo, noto al mondo come 'il medico di Lampedusa'. Il tendone bianco sulla riva del mare di Lerici (La Spezia) straripa di gente che è lì per sapere, anche per vedere (se lo sguardo regge le immagini proiettate): le parole non bastano, l’assuefazione ci ha anestetizzati, non piangiamo più come ai tempi della "strage di Lampedusa", quando il 3 ottobre del 2013 il mare inghiottì a due passi dalla terraferma 368 viaggiatori, e allora servono le foto, i corpi, i segni delle sevizie, gli sguardi che implorano.
"Lerici legge il mare", rassegna di letteratura e cultura marinaresca promossa dalla Società Marittima di Mutuo Soccorso assieme al Comune, e curata da Bernardo Ratti, quest'anno ha consegnato a lui il premio per la "Solidarietà in mare", e Bartòlo – che oggi è europarlamentare perché «mi sono detto qua non cambia niente, ho provato come medico, ho scritto libri, ho fatto l’attore in "Fuocoammare", ho girato le scuole e l’Europa, posso ancora provare con la politica, una politica di servizio, una politica come arte nobile » – Bartòlo, dicevamo, condivide il premio con i ragazzi della Capitaneria di porto, i carabinieri, la polizia, i vigili del fuoco «che nei trent’anni in cui ho diretto il poliambulatorio di Lampedusa hanno rischiato la vita tutti i giorni per salvare i naufraghi».
Scuoiati vivi per renderli bianchi
Lampedusa è croce e delizia, bellissima e atroce. Per natura è a forma di zattera, si direbbe destinata. «Come arrivano i migranti dalla Libia lo sappiamo solo noi», continua Bartòlo, «lì i neri non hanno lo status di esseri umani, le donne ancora meno. Se sono donne e nere potete immaginarlo», dice scorrendo le diapositive. È passato il tempo in cui si chiedeva se fosse il caso di mostrarle, ora lo ritiene un dovere. Così vediamo le lacrime di Nadir, 13 anni, nero, solo una gamba è bianca: il gioco osceno dei carcerieri libici che scuoiano i vivi per renderli chiari (il fratellino è tutto bianco. Ma lui è tra i morti).
Vediamo le lacrime di Bartòlo stesso, sceso nella stiva quel 3 ottobre del 2013 al buio, «camminavo su cuscini, non capivo. Poi ho acceso la pila e sono scappato fuori, stavo calpestando i 368 morti»: i più giovani e forti erano stati stivati là sotto senza oblò, nella ghiacciaia per il pesce, e quando avevano cercato di uscire per respirare la botola era stata bloccata da fuori. «Non avevano più polpastrelli né unghie, li avevano consumati prima di soffocare. Capii solo allora il pianto di quelli di sopra: erano i loro fratelli, le madri impotenti».
Vediamo gli occhi profondi di una giovane madre sdraiata senza abiti sulla lettiga, magrissima, il seno vuoto, gli arti abbandonati come non le appartenessero, «ha perso l'uso delle gambe perché dove era tenuta prigioniera non le ha potute muovere per sei mesi». Un lungo tempo in cui ad accudirla è stata la sua bambina, diventata sua madre a quattro anni. «Abbiamo dato dei biscotti a quella bimba, invece di mangiarli li ha sminuzzati e li ha messi nella bocca della mamma». Il peluche invece lo ha lasciato lì senza guardarlo, «non era più una bambina, cosa se ne faceva? Era stata anche lei violentata, come la madre» (che oggi sta meglio e comincia a camminare). Quante volte ha pensato di mollare e si è rivolto «a chi è sopra di me...», trovando sempre la forza di andare avanti «nelle tante cose belle che comunque accadono».
Nata due volte
Perché Bartòlo resta anche una fonte dirompente di speranza, uno che non si arrende e sa che il bene contagia più del male. Così tra le foto passa anche quella di Pietro, che non è Bartòlo ma un bimbo appena nato dopo il salvataggio, ancora a bordo, cui il medico ha legato l'ombelico con il laccio delle sue scarpe. «A quest'altro neonato lo ha legato sua madre strappandosi una lunga ciocca di capelli... Mi ero accorto che a quella ragazza si vedeva la pelle del cranio e pensavo fosse stata torturata, come al solito, invece non avendo le forbici non aveva esitato a strapparseli per il suo bambino. Sono persone straordinarie, non so quanti di noi...».
E poi vediamo Kebrat, bella come un’attrice: «Nel gruppo di cadaveri ho sentito un battito nel cuore di una donna, impercettibile, pensavo di sbagliarmi. Ho fatto subito il massaggio cardiaco e l'ho inviata in elicottero all'ospedale di Palermo, ma aveva i polmoni pieni d’acqua, era un caso disperato, per quaranta giorni è rimasta in coma. Due anni fa me la sono trovata in aeroporto, veniva per ringraziare: era sposata, madre di due figli, una bella casa in Svezia, un lavoro. Non l’ho riconosciuta, io l’avevo vista morta...».
Lasciati affogare. Per legge
Con lui a Lerici c’è l’ammiraglio Vittorio Alessandro, 40 anni di carriera nelle Capitanerie di porto, comandante in varti porti, a lungo responsabile della comunicazione per la Guardia Costiera, un anno intero a Lampedusa. «Nella attuale tempesta di slogan urlati e punti esclamativi, ho potuto non solo raccontare ma vivere esperienze che ti cambiano la vita. A Lampedusa ho compreso come l'energia delle persone a volte si rivela più grande di loro: il rapporto tra i lampedusani e il loro mare è stupefacente. Così come è stato nel naufragio della Costa Concordia, in una notte d'inverno l'Isola del Giglio si è fatta madre di una cosa enorme... Il privilegio – ricorda allora Alessandro – non è di essere buoni, ma di compiere un dovere istituzionale». Perché in mare la solidarietà è legge, e le regole sono «un patrimonio che si è sedimentato, guai a perderlo». Il primo oltraggio «è stato confondere il soccorso, che è senza se e senza ma, e l’accoglienza». Il soccorso non ha vie di mezzo, è un interruttore, o è sì oppure è no, o rispondi o decidi di lasciar morire, «ma se oggi una legge ci dice che salvare l’uomo in mare è reato, che se lo fai ti sequestrano la barca e ti sanzionano, magari tiri dritto. È già successo, hanno chiamato aiuto, nessuno ha risposto. Per legge».
Le antiche leggi del soccorso in mare
La spiegazione dell'ammiragiio è tecnica: una operazione di soccorso ha un inizio e una fine, «secondo la norma, è finita solo quando le persone raccolte in mare arrivano a terra. L'emergenza non prevede attese, ve la vedete un'ambulanza costretta a fermarsi per giorni con il malato a bordo, perché in ospedale si fanno riunioni per decidere il da farsi? Se rinunciamo ai codici del mare antichi di secoli, se una legge ci dice che chi è in mare può aspettare, perdiamo la nostra cultura, perdiamo noi stessi». Impressiona un paragone: sulla Costa Concordia c'erano 4.200 persone, «quanti giorni sarebbero stati necessari per portarli in salvo e chiudere l'operazione di soccorso, con i ritmi imposti oggi quando ad arrivare sono 30 o 40 migranti? Lo Stato è riuscito ad autosequestrarsi le navi, a fermare le proprie motovedette... Il ritorno alle regole è fondamentale, non per tornare necessariamente a come eravamo prima, non bisogna essere ideologici, credo si debbano trovare nuove soluzioni, che non possono essere solo italiane, devono essere europee e dell'Onu. Ma nel frattempo dobbiamo esserci!».
E' il motivo per cui il dottor Bartòlo oggi siede in Europa, convinto che il trattato di Dublino sia «il nostro capestro. Sono stato uno dei più votati in Italia, mi hanno dato un mandato e non lo deluderò - promette -. Quando la riforma di Dublino sarà varata, tornerò a fare solo il medico». Si capisce che non vede l'ora. Il medico di Lampedusa.
© RIPRODUZIONE RISERVATA