C’è voluto del tempo, ma alla fine Gino Bartali è arrivato anche al traguardo di Gerusalemme: lo Yad Vashem lo ha riconosciuto “Giusto tra le nazioni” per aver strappato alla morte gli ebrei perseguitati dal regime nazifascista. «Oh quanta strada nei miei sandali! Quanta ne avrà fatta Bartali...», canta Paolo Conte. In carriera il Ginettaccio si calcola che avesse coperto in sella a una bicicletta la bellezza di «700mila chilometri». Ma di tutte le «tappe vinte», la meno nota, la più anomala e straordinaria fu quella Firenze-Assisi e ritorno nel capoluogo toscano, che tra l’ottobre del 1943 e il giugno 1944 Bartali corse almeno «una quarantina di volte» per trarre in salvo gli ebrei in clandestinità. Una tappa temeraria, di «trecentottanta chilometri» percorsi a perdifiato in una sola giornata per consegnare nella città di San Francesco documenti di vitale importanza per gli ebrei tenuti nascosti da padre Rufino Niccacci. Nota era la fede di Bartali, la precoce entrata nelle file dell’Azione Cattolica, l’appartenenza ai terziari carmelitani, il legame stretto con papa Pio XII e i contatti tenuti con Alcide De Gasperi e Giorgio La Pira. Così come note erano state le gesta eroiche del ciclista per salvare gli ebrei rifugiati nella città di San Francesco, raccontate nel libro dello scrittore e regista Alex Ramati "Assisi underground" (titolo dell’omonimo film). Eppure quella tappa è rimasta a lungo «clandestina» alla storia e per espressa volontà del corridore. Bartali in vita minacciò di «querele» coloro che avessero svelato i particolari del suo coinvolgimento all’operazione «Assisi underground». Le ragioni del silenzio erano tutte in quel monito di umile trasparenza tramandato dal buon Ginettaccio al figlio Andrea: «Certe cose si fanno e basta. Io voglio essere ricordato per le mie imprese sportive e non come un eroe di guerra... Io mi sono limitato a fare ciò che sapevo fare meglio. Andare in bicicletta». E in sella a quella bicicletta «verde ramarro», maglione di lana e calzoni di flanella per ripararsi dal freddo pungente di quell’autunno gelido di morte, Bartali era pronto al via. Partenza da casa sua, in piazza del Bandino, con prima sosta in via dello Studio alla chiesetta del Collegio Eugeniano: ad attenderlo don Giacomo Meneghello, il segretario del cardinale Elia Dalla Costa, che gli consegnava dei documenti della massima segretezza da portare ad Assisi. Una corsa piena di insidie, cominciata alle 6.30 del mattino dopo aver partecipato alla Messa. Un tracciato da fare con il cuore in gola, senza destare sospetti, perché i suoi strani viaggi gli erano già costati tre giorni di carcere in via della Scala e il suo nome era da tempo nelle liste nere. «L’Ovra aveva messo una spia fissa a controllare i suoi spostamenti - racconta Paolo Alberati nel suo libro
Gino Bartali. Mille diavoli in corpo (Giunti)”. Era stato un giornalista sportivo, Franco Monza, esperto di motori, che aveva cominciato a seguire anche le gare di quello che nell’elenco dei sospettati venne schedato come Bartali Gino, n° 576. Poca roba sul suo conto, visto che la spia riferiva ai suoi superiori: «Un tipo molto strano questo Bartali che ad ogni vittoria ringrazia sempre Dio e la Madonna invece di dedicare il successo al nostro Duce». L’antifascismo indomito, unito all’amore per il prossimo rendeva ancora più veloce il pedale del fuoriclasse che aveva già vinto due edizioni del Giro d’Italia nel 1936 e nel’37 (poi vincerà il terzo nel ’46). Un «tappone» da portare a termine con il coraggio dell’italiano che è riuscito sfidare e battere i francesi a casa loro conquistando il Tour del 1938 (sarà l’unico ciclista al mondo a rivincere la Grand Boucle a dieci anni di distanza, nel 1948). Ecco le fasi salienti di quella corsa che lo ha reso “Giusto tra le nazioni” Bartali scala con calma il San Donato e va giù ancora lento per il Valdarno. Taglia la nebbia a Reggello dove nella bottega del calzolaio dei ciclisti Gennaro Cellai, fa rifornimento di informazioni sulle strade da evitare, quelle più battute dalle pattuglie e le camionette fasciste e naziste. Un percorso minato, da compiere nel minor tempo possibile. Per questo accelera nel tratto che da Arezzo imbocca la Statale 71 in direzione di Perugia. Alle 9,50 il campione fa una sosta al bar della stazione di Terontola gestito da Leo Lipparelli. Quel passaggio è studiato apposta con il Lipparelli per consentire la fuga degli antifascisti della zona. Nella gran bolgia che creano i tanti tifosi, quella massa di indesiderati dal regime riesce a imboscarsi sui vagoni e a mettersi in salvo dai controlli della milizia, che si concede la libertà di avvicinare il famoso ciclista per chiedergli il memorabile autografo. Da qui Bartali riprende spedito: costeggia il Trasimeno e rivede Castiglion del Lago, dove appena qualche mese prima era stato al servizio dell’Aeronautica in qualità di «portalettere» in bicicletta. Comincia a far tardi e non c'è gruppo che insegue più tetro e invisibile di quello che il campione sente a ruota. Ma il fiato lo assiste come sempre e vola sulla piana che da Ponte San Giovanni porta alla basilica di Santa Maria degli Angeli, in uno sprint-record di 21 minuti, alla velocità di 43 km orari (su una bicicletta del peso di quasi 15 chili, il doppio di quelle odierne). Tempi buoni per rivincere una Milano-Sanremo -due ne vinse in carriera- e lo spirito è lo stesso, con in più la motivazione umanitaria che lo spinge sul podio più alto: all’ora di pranzo è ad Assisi, al convento delle clarisse di San Quirico. Luogo dove neppure i saraceni avevano osato entrare, e invece le due suorine di clausura Eleonora e Alfonsina, tante volte avevano accolto e rifocillato un Bartali sfinito, ma con il cuore gonfio di gioia e d’orgoglio. Ad Assisi Bartali consegna le carte d’identità da falsificare con la macchina Felix della tipografia di Luigi Brizi, che col figlio Trento dà nuova nazionalità alle persone che padre Rufino nasconde nei conventi di Assisi. Alle 14,30, con i documenti celati nella canna verticale sotto il sellino, Bartali prende la strada di casa, dove arriva alle 19,30 spaccate. Fine della corsa? No, perché avverte che ormai è braccato e decide di andare in fuga per un po’ e mettere a riparo la famiglia. Andrà a Nuvole (vicino a Città di Castello) nella casa dell’amico Nello Capaccioni. Di tutto questo non dirà mai nulla, ma oggi sappiamo bene quanta fatica e quanta strada ha fatto Bartali per salvare uomini, donne e bambini dal tragico olocausto nazifascista.