Inchiesta bande latinos a Milano. «Arruolato a 13, portavo il machete per ordine del mio Jefe»
LEGGI L'INCHIESTA DI LUCIA CAPUZZI SULLE BANDE DI LATINOS DI MILANO
«Mi ero già addormentato quando sono arrivati. Volevo essere riposato per il mio compleanno. Avevo organizzato tutto: la mattina sarei andato a scuola, l’avevo appena ripresa, e la sera l’avrei trascorsa con i compagni. Invece, ho compiuto 18 anni in prigione». Eduardo - il nome è di fantasia come per tutte le altre persone citate per ragioni di sicurezza - scruta l’interlocutore con i grandi occhi nocciola. Non sembra nervoso ma di sicuro lo è. Qualche volta butta là una battuta per smorzare la tensione e sorride. Preferisce parlare in italiano, con forte accento lombardo: del resto è cresciuto qui. A nove anni è arrivato insieme alla mamma dal Perù. Del padre, rimasto là, non ha più saputo nulla. A farne le veci, il "capo" - El Jefe, lo chiamavano - che, per quattro anni, è stato il suo punto di riferimento. In pratica, Eduardo è stato allevato in una gang. «Quando sono entrato ero quasi un bambino». Da qui il nome "pulga", pulce o p, la stessa iniziale incisa sul braccio sinistro. Di tatuaggi ne ha fatti vari. Probabilmente per cercare di nascondere, ai tempi della banda, l’aria da ragazzino che, però, gli è rimasta. Ha cominciato a frequentare i gruppi di strada a 13 anni nel suo quartiere, alla periferia ovest della città. Non proprio una banda, anche se cercavano di scopiazzarne lo stile. Il "suo" esordio è avvenuto alla fermata del tram. Un ragazzo si è rivolto in modo sgarbato a un esponente del gruppo e hanno iniziato a battibeccare. «Avrà avuto vent’anni ed era alto. Era accanto a una panchina. Mi ci sono appoggiato sopra e gli ho dato un pugno». Grazie al "gesto audace", Eduardo è stato accettato nella "comitiva". Ben presto, il gruppo ha cominciato a stargli stretto. «Erano ragazzini..». Nel quartiere, invece, aveva incontrato, più volte, dei pandilleros veri. Quelli a cui devi cedere il posto quando li incontri al parco. E al Matiné non fanno la fila per entrare. Quelli che si nascondono dietro un nome ben conosciuto - MS - e il cui capo millanta contatti con le vere maras in Salvador. «Ho iniziato ad avvicinarli e, dopo qualche mese, sono uscito dal mio gruppo. Ci ho messo un altro bel po’ per convincerli a prendermi con loro». È stato El Jefe ad arruolarlo, anzi ad "adottarlo" come protetto. «Per questo, il mio pestaggio iniziale è stato leggero: ti menano per 13 secondi. Non sono secondi veri, però. Il capo scandisce il ritmo: può farlo durare anche un quarto d’ora. Il mio è finito subito. Prima del mirin, la riunione obbligatoria, il capo si consulta con i suoi fedelissimi. Solo loro potevano discutere sulle decisioni che poi venivano esposte nell’incontro successivo. A me, però, permetteva di partecipare. E, a volte, mi faceva anche portare il machete». I coltellacci venivano acquistati legalmente al centro commerciale. «Ognuno costa 30 euro. Facevamo una colletta per prenderli. E poi El Jefe sceglieva a chi distribuirli. Lo tenevo qui – afferma il ragazzo indicando la coscia destra – non era scomodo». I soldi per i machete, l’alcol - consumato in abbondanza -, qualche "canna" e la pistola di El Jefe li racimolavano con i furti. «Telefonini soprattutto. Con uno smartphone non bloccato ci fai anche 250 euro». Lo sapevano anche le autorità che da tempo avevano cominciato a tenerli d’occhio e ad intercettarli. «Noi parlavamo di tutto al telefono: le risse, i furti… Pensavamo di essere molto furbi e abbiamo continuato a crederlo anche quando, da un certo punto, non ce n’è andata bene più una: ogni volta che stavamo per fare qualcosa, arrivava la polizia».