«Cercavo di sbagliare mira, ma è inutile negarlo: da bambino ho dovuto uccidere e l’ho fatto tante volte». Aveva 13 anni John Baptist Onama quando in Uganda fu rastrellato dalle milizie governative e costretto a imbracciare le armi contro i guerriglieri di Idi Amin. E oggi che l’ex bambino soldato è diventato un 40enne docente d’università, ha scelto di raccontare «per aiutare i ragazzi italiani a riflettere sulla necessità di costruire un mondo più giusto»: «Ho visto stupri di massa su bambine della mia età e massacri di civili. Ho visto uccidere e torturare. Ho visto adulti supplicare di essere risparmiati e poi morire sotto i colpi di un fucile. E spesso quel fucile era il mio».Esce dall’ateneo di Padova, dove insegna Economia dello sviluppo presso la facoltà di Scienze politiche, e ci tende la mano con una battuta: «Il mio nome è Onama... Prima tutti si sbagliavano con Osama, adesso con Obama: mi sono riabilitato!». È un uomo che la fede rende solido e sereno, nonostante le ferite che si porta dentro e i ricordi incancellabili: «Era il 1980, Idi Amin era stato rovesciato dopo otto anni di dittatura e il Paese era dilaniato dalla guerra civile tra i soldati del nuovo esercito nazionale e i guerriglieri di Amin – racconta –. Entrambi sfogavano sulla popolazione civile la loro ferocia. Nel fuggi fuggi generale io mi rifugiai in soffitta insieme a Richard, uno dei miei fratellini che stava male e non poteva scappare, e rimanemmo immobili nel buio...». Non sapeva che setacciavano proprio le soffitte per rubare i pochi valori nascosti: «Fu così che ci trovarono e ci portarono dal comandante. Di Richard persi le tracce, ma lì trovai George, un altro dei miei fratelli».Era solo un bambino, Onama, con tanti sogni ancora da realizzare, primo tra tutti la licenza primaria, che nel sistema scolastico ugandese si ottiene in settima elementare. «Invece il solo esame di geografia fu l’interrogatorio del comandante»: Onama era stato risparmiato solo perché conosceva il territorio a perfezione, era la guida giusta per i settanta uomini del plotone che doveva stanare i guerriglieri. «Non ti chiedono per favore, ti arruolano e basta – testimonia oggi il professor Onama –. Prima ci hanno detto che dovevano eliminarci perché ormai sapevamo troppo, poi ci hanno fatto balenare la speranza di salvarci la pelle se avessimo collaborato. Era un bluff, ma da giorni camminavamo tra cadaveri diventati preda dei branchi di cani, come potevamo dubitare delle loro parole?». Qualche ora di addestramento con i fucili, un taglio all’uniforme per adattarla alle dimensioni del bambino, e Onama era "soldato" a tutti gli effetti. Nessun maltrattamento, anzi, il plagio dei bambini avviene facendoli sentire importanti, persino amati – hai fame, piccolo? Vuoi una sigaretta? – «e così ti ritrovi assassino, anche perché il nostro plotone era spesso attaccato dai ribelli, e questo crea un legame. Per vincere paura e orrore, poi, ci davano la marijuana». Gli occhi del piccolo Onama hanno visto le più basse umiliazioni, ricordano ancora il tremito di un adulto che porge invano il suo orologio per comprare la salvezza, o il pianto di un’anziana che chiama «figlio mio» l’uomo che le sta sparando. «Io stesso uccidevo – mormora John Onama –: a volte magari avrò anche cercato di "sbagliare" mira, ma la verità è che lo fai e basta, sei solo un bambino, hai tanta paura e pensi che altrimenti tradisci gli altri... Quella è gente che ti sa plagiare, alla fine salti la fossa ed è per sempre».A meno che non irrompa nella tua vita qualcuno ancora in grado di cambiarla e non ti resti almeno un sogno pulito, «quella licenza elementare che tuttora non ero riuscito a ottenere». I genitori di Onama sono rifugiati nel campo profughi oltre il confine sudanese, e il piccolo è solo. Più volte scappa e più volte viene riacciuffato, ma sulla sua strada incontra quelli che oggi descrive come angeli custodi in carne ed ossa. La prima a salvarlo è suor Veronica, preside italiana di una scuola fondata dai comboniani nella diocesi di Gulu: «È lei che mi fa sostenere l’esame di Stato, ma poi i militari mi riprendono e io vedo riaffacciarsi tutto l’orrore». Poi lo affida ai frati, che gli danno un lavoro e soprattutto parlano del suo caso al vescovo di Gulu, Cipriano Kihangire: «Per mia fortuna il vescovo era anche presidente del consiglio d’amministrazione del collegio dei comboniani – sorride Onama –, così mi ha esonerato dalle tasse scolastiche e ho potuto frequentare le superiori». La presenza dei comboniani è quello che John oggi definisce un miracolo: il governo aveva ordinato di evacuare la missione di Moyo ma i quattro sacerdoti italiani si erano rifiutati e la missione aveva spalancato le porte, ospitando profughi persino in chiesa e nella scuola. «A loro rischio ogni sera comunicavano via radio con la casa generalizia i massacri, costringendo così il governo a moderare la ferocia».È in quegli anni che Onama matura la sua fede, con i frati di Saint Martin De Porres impara a pregare, accanto ai comboniani scopre «un carisma di tipo francescano, la spiritualità delle piccole cose che ancora oggi determina ogni mia giornata. Vede – fa un esempio – ieri in fondo alle cose da stirare ho trovato delle camicie che erano là sotto dalla scorsa estate e mi sono spaventato: se in tanti mesi non le ho cercate vuol dire che possiedo troppo...».A Padova il giovane Onama ci arriva nel 1988, quando padre Luciano Giarolo, missionario veneto conosciuto al meeting degli studenti cattolici in Kenya, e una domenica dal pulpito racconta l’odissea del ragazzo africano. Il futuro professore si mantiene lavorando come lavapiatti nella mensa universitaria, mentre la Caritas gli passa tutti i libri. Nel 2003 la laurea con 110 e lode.Oggi, a chiedergli che sogni gli restino da realizzare, sfodera un sorriso bianchissimo, «salvare il mondo e comprarmi uno yacht», poi torna serio: investire negli studenti per un mondo di pace. E soprattutto meritarsi la grazia che Dio gli ha dato: «I miei coetanei non ce l’hanno fatta e chi è sopravvissuto ha la vita distrutta. Perché io ho incontrato suor Veronica o padre Luciano? Perché ho potuto studiare? Non ho risposte, ma il dovere di meritarmelo sì».