Attualità

Agli Stati generali esecuzione penale carcere. Bagnasco: la pena deve puntare al recupero

lunedì 18 aprile 2016
Le pene devono avere “una funzione deterrente” e nello stesso tempo tendere “al riscatto umano del colpevole”. A ricordarlo è questa sera a Roma il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, nell’intervento pronunciato presso l’auditorium della Casa circondariale nuovo complesso Rebibbia “Raffaele Cinotti”, in occasione degli Stati generali dell’esecuzione penale che si concludono domani. Nel sottolineare che scopo della politica è il perseguimento del “bene comune” da tradurre e sviluppare “all’interno di ogni aspetto della vita sociale e dell’ordinamento dello Stato”, il cardinale Bagnasco ha definito “necessaria” un’autorità politica “capace di dirigere le energie di tutti i cittadini verso l’individuazione del bene comune, ma non in forma meccanica o dispotica, bensì innanzitutto come forza morale alla luce della libertà e della coscienza del compito ricevuto”. Per questo la Chiesa “da sempre stima degna di considerazione l’azione di quanti si dedicano al bene della cosa pubblica in tutti i suoi aspetti”. Quanto alle pene, necessarie per garantire l’ordine e la sicurezza sociale, devono avere “una funzione deterrente”, e nello stesso tempo tendere “al riscatto umano del colpevole. La pena, pertanto, deve sempre avere una intenzionalità non solo preveniente e compensativa, ma anche medicinale affinché nessuno sia abbandonato ai bordi della strada e la comunità civile svolga il proprio ruolo verso tutti”. “In una società intesa come rete di relazioni, non esiste un atto criminoso che resti isolato: anche quello che colpisce una singola persona ha sempre una ricaduta generale”. “Senza giustizia è impossibile perseguire il bene comune”, ma se “giustizia” è “dare a ciascuno il suo”, riconoscere a ciascuno il suo “non può significare la codificazione di desideri, pulsioni, preferenze, gusti dei singoli soggetti individuali o associati”. Il monito è del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei, intervenuto questa sera nel carcere romano di Rebibbia agli Stati generali dell’esecuzione penale. Giustizia, per il porporato, è “il riconoscimento di ciò che compete ad ogni soggetto in quanto tale, nelle istanze di fondo comuni agli altri, istanze che, pur essendo comuni perché ineriscono alla natura o verità delle cose – persone, famiglie, associazioni… – non omologano tutto e tutti, ma sono in grado di tradursi con discernimento e equità”. Parlando di verità della persona, ha osservato, “ci troviamo sul piano dell’etica, cioè dei principi e dei valori senza dei quali non si può né legiferare né vivere insieme. Infatti, ogni azione è sempre frutto di un giudizio di valore, piccolo o grande che sia: noi viviamo giudicando e non può essere diversamente”. Dal presidente della Cei l’invito, di fronte alla cronaca “che spesso semina ombre sui nostri giorni”, a reagire alla tentazione di “perdere la fiducia”. “Non possiamo chiudere gli occhi sul buio, dall’altra non possiamo chiuderli sulla luce” . E la luce è “la vita che brulica, il bene nascosto, l’onestà a tutta prova, il gusto di andare a testa alta non per alterigia ma per onestà nel lavoro, nella famiglia, nel sentirsi parte di una storia, di una fede, di una cultura, di un popolo con gioia, senza alterigia e senza complessi”. “Come possiamo reagire alla realtà della violenza, del sopruso, del colpevole disinteresse, del raggiro? Certamente le leggi e le pene sono una risposta doverosa”; ma la moltiplicazione delle leggi “non può forse indicare una certa difficoltà? Come se la società potesse reagire solo normando ogni comportamento?”. Bagnasco riconduce la questione al livello della coscienza: “Le leggi possono giustamente normare il vivere comune, ma non arrivano a normare la coscienza”, “nucleo intimo di ciascuno di noi” che storicamente “è stato il punto di forza per ogni riforma, lo scatto per pensare il futuro”. “Non sempre – ammette – è stata la coscienza collettiva una coscienza sana”. Quando infatti “la cultura diffusa alimenta miti, esigenze, simboli vuoti, mode, nasce una società sotto il segno della menzogna che induce a comportamenti tragicamente coerenti con una bolla di fantasmi”. Tuttavia, per far diventare “un fuoco che arde” la brace del bene che è sotto la cenere, bisogna “far brillare ideali alti, veri e belli, per cui vale la pena di lottare e soffrire: occorre riscoprire l’alfabeto dell’umano che si vuole stravolgere sulla spinta di colonizzazioni che vengono da lontano. Ma – la conclusione di Bagnasco – non dobbiamo dimenticare né sottovalutare la forza della coscienza: essa può essere corrotta da una cultura diffusa e menzognera, ma non può rimanere corrotta per sempre: si autorigenera, all’improvviso si risveglia, fino a diventare un detonatore”.