Nel 2009 nel periodo in cui sono stato con
Nicola Schiavone, gestivo i punti scommesse sul territorio e prendevo una
percentuale tra il 15 e il 25% per ogni postazione che veniva installata in bar
e circoli pubblici nei comuni controllati dal clan». Così il collaboratore di
giustizia Francesco Della Corte ha raccontato ai magistrati il sistema
dell’affare nel gioco d’azzardo del clan dei "casalesi". Aggiungendo
che «la società era formalmente intestata ad altre persone» ma che del 2009 il
clan aveva «il controllo del gioco d’azzardo che si svolgeva nei comuni
controllati da Nicola Schiavone».
Parole ampiamente citate nell’ordinanza dell’operazione
"Rischiatutto" che due giorni fa ha pesantemente colpito il
ricchissimo business guidato da figlio maggiore di Francesco Schiavone
"Sandokan", il capo della famiglia. Nicola che, spiegano gli
inquirenti, «operava sulla direttrice Casal di Principe, Modena, Romania. Mente
imprenditoriale che aveva subito capito l’importanza del settore dei giochi».
Quelli legali, con tanto di concessioni, attraverso imprenditori apparentemente
puliti.
E non solo in casa loro. Infatti, scrivono i magistrati nell’ordinanza, il clan
in Emilia Romagna è riuscito a far nascere circoli e altri luoghi di gioco che
sono «l’elegante replica e la riproposizione in termini moderni di quelle
bische clandestine di Casale dove il rampollo della famiglia di camorra amava
trascorrere lunghe ore notturne». Da passatempo ad affare, il salto è stato
facile. Soprattutto nel proprio territorio. Così dopo l’imposizione del latte
(quello della Parmalat, come accertato da inchieste degli anni ’90), dopo
quella del caffè (ancora oggi in campo, malgrado altre inchieste), si è
arrivati all’imposizione delle slot e di altri giochi. E a farlo sarebbero le
stesse persone, riconvertite al nuovo affare e “protette” dal clan. Persone
“pulite”, titolari di concessioni, produttori e distributori di macchinette. Ma
si sa bene per conto di chi.
Così uno dei più fidati uomini di Schiavone junior, Bartolomeo Cacciapuoti, si
rivolge al titolare di un agenzia per imporgli la società di scommesse "di
fiducia": «Leva di mezzo la Bet Shop altrimenti siamo costretti a farti
chiamare a Nicolino e ti sistema tutte le cose». E Della Corte, nel suo
racconto, non è da meno: «Il Casinò Normanno ad Aversa (una della sale
sequestrate due giorni fa,
ndr) è del figlio di “cicciariello”, Paolo
Schiavone. I Grasso (noti imprenditori dei giochi già coinvolti in altre
inchieste,
ndr) sono soci di fatto del clan dei
casalesi. Chi invece lavorava per conto proprio era Amato di Santa Maria Capua
Vetere che quindi velavamo ammazzare».
Gioco legale, dunque, in mano ai clan. Come conferma l’analisi dei magistrati.
«Sono stati documentati i rapporti tra il “Gruppo Schiavone” e la società di
scommesse Betting 2000, titolare di concessione del ministero delle Finanze e
riconducibile ai fratelli Grasso Renato e Tullio, imprenditori nel settore dei
videogiochi, i quali si erano garantiti una condizione di monopolio per la
fornitura di apparecchi elettronici nella maggior parte delle aree campane,
nonché il basso Lazio e la Capitale, finalizzati all’apertura di nuovi centri
scommesse gestiti dal sodalizio, utilizzando le credenziali della citata
società». Il tutto avviene con protezioni e collusioni politiche e
amministrative. Come il consigliere comunale di Santa Maria Capua Vetere,
Alfonso Salzillo, tra i 165 indagati, che, con alcuni imprenditori, avrebbe
addirittura accompagnato Nicola Schiavone nel viaggio in Romania per mettere in
piedi i server delle scommesse on line («Qua ci devo mettere le tende», dice
intercettato il giovane Schiavone). E una sala gioco compare anche nel decreto
di scioglimento per infiltrazione camorrista del comune di Casapesenna, altro
feudo dei "casalesi". Si fa riferimento a un cambio di destinazione
d’uso di un immobile da civile abitazione a commerciale «in assenza dei presupposti
di legge», proprio per aprire un «esercizio di attività di raccolta di
scommesse e sala giochi». I personaggi coinvolti risultano legati a boss del
calibro di Michele Zagaria e Antonio Iovine “o ninno”. Eppure, col nome
cambiato, quella sala giochi è ancora lì. Aperta e funzionante.