Il tema. Autonomia differenziata, tutte le voci che il governo non ha ascoltato
La premier Meloni col ministro Calderoli
Nonostante Giorgia Meloni e Matteo Salvini abbiano assicurato di «non temere il referendum» sull’autonomia differenziata, ha invece il sapore della preoccupazione il pressing preventivo avviato ieri nei confronti della Corte costituzionale dal ministro che dà il nome alla legge, Roberto Calderoli. Per l’esperto politico leghista la Consulta dovrebbe, per «applicare le regole», bocciare il quesito che ha già ampiamente superato le 500mila firme. «Visto che la Corte costituzionale mi dichiarò illegittimo il referendum abrogativo della legge Fornero perché disomogeneo e perché era una legge collegata alla manovra di finanza pubblica, non dovrebbe essere ammissibile il referendum abrogativo», è il forcing di Calderoli. Che poi enuncia «altri motivi di inammissibilità» legati «all'obbligatorietà costituzionale della legge».
Il dibattito di merito sull’ammissibilità del quesito già è in corso tra gli addetti ai lavori, ma per le opposizioni, che pure non possono escludere a priori il «no» della Consulta, quello di Calderoli è soprattutto un atto politico che da un lato mette un macigno sulle spalle dei giudici costituzionali, dall’altro esprime i timori dell’esecutivo sul referendum abrogativo. Le parole di Calderoli arrivano dopo le punture della premier Meloni contro chi si oppone alle riforme del governo, compresa l’autonomia differenziata, accusato di voler «difendere lo status quo». Un’accusa che la presidente del Consiglio riversa sui suoi oppositori politici e sul pezzo di società civile che sta raccogliendo le firme contro il ddl Calderoli. Ma che si guarda bene dal rivolgere contro quelle istituzioni “terze” che durante l’iter della legge Calderoli hanno espresso in Parlamento e fuori pesanti rilievi sull’autonomia differenziata.
Upb, Bankitalia, Corte dei Conti e Ue: «I numeri non tornano»
Già nell’audizione in Commissione al Senato del 6 giugno 2023 l’Ufficio parlamentare di bilancio evidenziava una questione di fondo che le successive correzioni sul testo non hanno superato: «Anche a parità di risorse andrebbero valutati i possibili maggiori costi per la pubblica amministrazione nel suo complesso determinati dal minore sfruttamento delle economie di scala e di integrazione a livello nazionale». Pochi giorni dopo la massima autorità finanziaria del Paese, Bankitalia, evidenziava che «una cornice normativa più complessa e disomogenea sul territorio rischia di distorcere – e in ogni caso di rendere più difficoltose – le scelte delle imprese», in particolare quelle che «operano su scala sovraregionale», che si troverebbero di fronte «sistemi molto diversi». Si tratta di effetti di fondo della legge, evidenziati più di un anno fa, e che nessun emendamento ha potuto calmierare. Più recentemente, a maggio e giugno 2024, altri due documenti hanno riportato larghe preoccupazioni. La Corte dei Conti, in audizione il 22 maggio dinanzi alla Commissione parlamentare per il federalismo fiscale, ha ricordato, in riferimento ai Lep, che «potrebbe presentarsi un problema di copertura della maggiore spesa derivante dall’applicazione del criterio del fabbisogno standard rispetto a quello precedente della spesa storica». Anche questa una domanda senza risposta. Mentre la Commissione Europea, nel Country report dello scorso 20 giugno, è lapidaria: «Il ritorno di competenze aggiuntive alle Regioni italiane comporta rischi per la coesione e per le finanze pubbliche».
La «cautela» di Confindustria
Anche l’associazione degli industriali, quando è stata sentita in commissione al Senato l’anno scorso, ha evidenziato «un tema di sostenibilità finanziaria e amministrativa», chiedendo esplicitamente di lasciare allo Stato le «competenze strategiche per la tutela del mercato» e quindi escludere dal mazzo delle materie trasferibili infrastrutture, trasporti, reti, energia e commercio estero.
Svimez e Gimbe, allarme per la Sanità
Insomma sono molti gli attori non ascoltati a fondo dal governo, che ora ritiene destinato a essere bocciato il quesito referendario. Tra questi Svimez, pochi giorni fa citata dalla premier Meloni per gli ultimi dati economici sul Mezzogiorno. Numeri alla mano, Svimez afferma che «negli anni successivi alla stipula delle intese, il meccanismo di finanziamento basato su quote di compartecipazione dei tributi riscossi sul territorio possa determinare un extra-finanziamento per le Regioni ad autonomia differenziata». Mentre la fondazione Gimbe, in un recente rapporto pubblico sugli effetti dell’autonomia sulla sanità, dopo una sfila di tabelle e grafici afferma: «Quel che è certo è che l’autonomia differenziata non potrà mai ridurre le diseguaglianze in sanità, perché renderà le Regioni del Centro-Sud sempre più dipendenti dalle ricche Regioni del Nord. Le quali rischiano, paradossalmente, di peggiorare la qualità dell’assistenza sanitaria per i propri residenti».
La nota della Cei:custodire l’unità
È a conclusione dunque di questo dibattito ampio sulle ricadute dell’autonomia differenziata, che ha coinvolto le principali istituzioni del Paese, e a conclusione di una fase di ascolto dei territori, che l’episcopato italiano, lo scorso 24 maggio, ha reso pubblica una nota in cui si ricorda che il ddl-Calderoli «rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica». Un rischio che «non può essere sottovalutato, in particolare alla luce delle disuguaglianze già esistenti, specialmente nel campo della tutela della salute». Ma anche la voce dei vescovi si è aggiunta alle altre autorevoli voci non ascoltate dal governo.