Attualità

Il caso. Attanasio, tre anni dopo: lo Stato resta assente

Marco Birolini giovedì 22 febbraio 2024

Un momento della commemorazione a Limbiate

Infilato tra le rose, sulla lapide, c’è ancora il biglietto di Natale lasciato dalle sue bambine. “Happy Christmas papà Luca”. Perché Luca Attanasio, prima che ambasciatore, questo era: un padre, un marito, un figlio, un fratello, un amico. Se ne sono ricordati in tanti oggi: alla commemorazione nel cimitero di Limbiate, in Brianza, più di cento persone. Nonostante la pioggia battente e il freddo, la gente comune ha voluto portare il suo omaggio. Una signora vestita di nero depone una rosa e si asciuga gli occhi. Due anziani coniugi sostano in silenzio davanti alla tomba, stretti stretti sotto l’ombrello.

Sono passati tre anni esatti dall’agguato in Congo: la memoria di Attanasio è ancora viva perché, spiega papà Salvatore, «lui era uno vero, le persone gli volevano bene». Ci sono anche i sindaci della zona, alcuni ufficiali dei carabinieri, le associazioni dell’Arma e dei bersaglieri. Non si è visto lo Stato.

Nessun rappresentante della Farnesina, da cui Attanasio pure dipendeva. Dopo essersi defilata dal processo, rinunciando a costituirsi parte civile, l’Italia si è chiamata fuori anche dal dolore.

Ci sarà una cerimonia ufficiale a Roma il prossimo 28 febbraio, si è saputo per via informale, ma a Limbiate ieri non si è visto nessuno. «Mi sarei aspettato una telefonata, un messaggio. Un gesto di cordoglio in ricordo di quanto avvenuto tre anni fa. Invece niente» sospira Salvatore Attanasio.

Ma non è giornata di polemiche, né di rancori. Prevale la tenerezza, il sorriso dolente di un padre che sulla tomba del figlio lo ringrazia «per quello che sei stato, per quello che hai saputo dare a noi, a tutti. Sei come il seme di grano che continua a germogliare». Il riferimento è al passo del Vangelo citato da don Valerio Brambilla, parroco di Limbiate: «Il chicco che muore produce frutto, e anche Luca è un seme abitato da uno spirito di vita che lo porta a cercare il sole di Gesù.

Poi nel cimitero risuonano le parole di una riflessione che l’ambasciatore scrisse il 3 dicembre 2000. «Guardati nel cuore, guarda solo nel tuo. Non giudicare con superbia». Piuttosto, «vivi facendo del bene, altrimenti sei solo un chiacchierone». E, soprattutto, «impara ad ascoltare». Virtù rara, in un mondo che ha l’ansia di dire qualcosa, sempre e comunque, spesso a sproposito. Luca Attanasio preferiva pensare ed agire.

Era un buono, non un buonista. E nemmeno un ingenuo. Se c’era un problema lo affrontava in modo risoluto. Un uomo tutto d’un pezzo, direbbe qualcuno. Più semplicemente, era un degno rappresentante dello Stato (e non è poco), che ha pagato con la vita il suo senso del dovere. Con lui quel maledetto 22 febbraio 2021 è morto anche il carabiniere Vittorio Iacovacci, che ha tentato di fargli scudo con il corpo. Lui, che nemmeno doveva partecipare a quella missione. Doveva esserci qualcun altro al suo posto, poi all’ultimo momento era cambiato il programma. Uno scherzo atroce del destino, come quello toccato a Mustapha Milambo, che faceva solo il suo lavoro d’autista.

Tre morti in cerca di verità, che resta molto lontana. Il processo per omicidio colposo contro i due funzionari del Pam non si farà, la giustizia italiana ha riconosciuto l’immunità diplomatica sbandierata dall’agenzia Onu. La procura di Roma ha presentato appello, si vedrà. I genitori di Attanasio intanto non si arrendono, non possono. «Andremo fino in fondo» ripete papà Salvatore. Non è una minaccia, ma una promessa a se stesso. E a Luca.