Attualità

L'assemblea. Il Pd avvia nuova fase: Martina segretario. Primarie il 24 febbraio 2019

Roberta d'Angelo sabato 7 luglio 2018

Il segretario eletto dall'Assemblea del Pd

Dentro la sala dell’Hotel Ergife di Roma i volti scuri dei capi corrente esprimono insoddisfazione, ma è la preoccupazione per quello che accade fuori (con Lega e M5s che rilanciano ogni giorno) a spingere l’Assemblea del Pd a trovare la tregua: e Maurizio Martina, reggente del partito dalla sconfitta del 4 marzo , viene eletto segretario. A tempo. Ovvero fino al 24 febbraio prossimo (data da confermare ancora), quando si celebreranno le primarie. La fase congressuale si avvierà in autunno, dunque. Per arrivare alle europee con un Pd di nuovo competitivo. Ma il lavoro da fare è davvero tanto, concorda l’intera platea, consapevole di dover ricostruire il rapporto con gli elettori. Ma sul come e sul perché il feeling si sia interrotto le divergenze restano tutte.

Così per evitare nuove lacerazioni passa la linea di Nicola Zingaretti, allo stato l’unico candidato già pronto per i gazebo con i comitati per l'alternativa, di avviare subito il Congresso. Mentre Martina (che avrebbe voluto un mandato più lungo) già martedì dovrebbe varare la nuova segreteria collegiale, a cui parteciperanno verosimilmente anche Andrea Orlando e Francesco Boccia per l’area di Emiliano, e con la renziana Teresa Bellanova vicesegretario. Sul nome dell’ex ministro dell’Agricoltura infatti l’assemblea si è ritrovata con soli 7 voti contrari e 13 astenuti.

«Nel lavoro di ricostruzione del Pd – dice il neosegretario - dobbiamo metterci profondità perché non bastano i tweet. Neanche Obama basta più. Sono disponibile a fare il segretario di un partito che ricostruisca una fase straordinaria di riprogettazione. Si può fare, nella nostra pluralità. Si può fare se tutti teniamo un crinale di responsabilità». Senza «nostalgia del passato», ma aprendo «porte e finestre» a quello che è fuori dal Pd, dice Martina.

Ma è ancora Matteo Renzi a dividere l’assemblea. L’ex segretario, che conferma di voler continuare la sua battaglia dentro il Pd, torna a parlare nel massimo organo del partito dopo le dimissioni seguite alla sconfitta del 4 marzo. La sua è un’analisi che non convince tutti (da Cuperlo a Zingaretti, l’accusa è di non fare autocritica), ma Renzi si toglie 10 sassolini dalle scarpe, considerati i «dieci motivi della sconfitta». L’ex premier fa nomi e cognomi, anche se alla fine si assume la responsabilità. Non mancano alcuni momenti di contestazione, specie sul passaggio relativo alla "ferita" ancora aperta della procedura che portò alla fine dell'era dell'ex sindaco Ignazio Marino. E però per Zingaretti non è così che si fa: «Non si mette mai in ascolto», secondo il governatore del Lazio. Ma per Renzi l’atteggiamento della sinistra interna la porterà «nuovamente a perdere». Salvo che poi, è la critica più insistente del senatore di Scandicci, «ricomincerete ad attaccare chi ha vinto». Ma il Pd resta «l’unico argine del populismo in Italia».