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Le storie. La resistenza dolce dell'artigianato. Sono le donne a salvare la tradizione

Ilaria Beretta sabato 24 febbraio 2024

Ilaria Cazzaniga, liutaia

A Barletta, in un piccolo laboratorio, Maria Rosa Borraccino restaura libri antichi. Trentasette anni, laureata in Scienze e tecnologie per la conservazione dei beni culturali all’Università di Bari, Borraccino si è specializzata in legatoria anche a New York; nel 2019 è rientrata in Puglia e ha aperto Micronart, la sua bottega.

«Lavoro per biblioteche, archivi e studi legali con documenti e riviste che non possono essere rilegati industrialmente; inoltre ripristino volumi di pregio a partire dalla disinfestazione fino alla rilegatura. Ci vuole concentrazione e meticolosità per trovare il metodo meno invasivo che restituisca bellezza a un manufatto di carta sgualcito dal tempo». Invece per rilegare la carta moderna, che ha fattura e dimensioni standard, si adoperano macchinari appositi. «A mano – ammette infatti Borraccino – ormai si rilega poco, il legatore è un mestiere talmente di nicchia che al Sud si è persino persa la conoscenza di questa figura professionale; io stessa dal 2020 lavoro anche come bibliotecaria. Al limite qualcuno si avvicina a quest’arte come hobby».

Maria Rosa Borraccino, restauratrice di libri - Collaboratori

Sembra il destino di tutti i piccoli artigiani, un mondo “ristretto” per sua stessa fisiologia e definizione, che però oggi rischia di rimpicciolirsi fino a diventare invisibile. Almeno per le statistiche.

Secondo gli ultimi dati Inps, dal 2012 al 2022 il numero di chi lavora “a mano” è sceso di quasi 325 mila unità, assestandosi a 1.542.299 persone, di cui oltre la metà concentrate nel nord Italia. A contrarsi sono soprattutto alcune specializzazioni da anni inserite dalle associazioni di categoria in liste di mestieri “a rischio estinzione”, per i quali la domanda decresce e a cui i giovani non si avvicinano più: impagliatori, vetrai, intagliatori, corniciai, liutai, pellettieri, calzolai, ricamatrici... Ma dai dati emerge un altro dato interessante.

Tra gli artigiani esiste una marcata disparità di genere: quasi l'80% dei titolari di imprese sono maschi e, anche se tra i collaboratori la differenza è meno netta, le artigiane – soprattutto se giovani – sono perle rare: una sorta di “minoranza nella minoranza” a cui quasi mai viene data voce.

Eppure chi resiste sono proprio le donne. Se infatti si analizza la distribuzione degli artigiani per sesso dal 2013 al 2022, la linea maschile segna una decrescita mentre la consistenza femminile è minoritaria ma pressoché costante. Le artigiane insomma resistono e, con mani esperte e zero proclami, tengono alta la bandiera del “made in Italy”.

Lo dimostra Ilaria Cazzaniga, liutaia di 32 anni: «In Italia su 400 liutai le donne sono appena 35; nelle botteghe lo squilibrio di genere si sente nelle dinamiche e nell’approccio al lavoro, solo di recente si vedono donne scalare le classifiche dei concorsi internazionali». Cazzaniga ha una formazione eclettica: dopo il liceo classico e una laurea in fisica, oggi si alterna nella produzione e restauro di strumenti musicali nel suo laboratorio tra Milano e la Brianza e la messa a punto di violini per la sede berlinese della casa d’aste Tarisio.

«Nel mio piccolo sto provando a scardinare alcuni meccanismi dell’artigianato tradizionale: per esempio portando una competenza scientifica e diagnostica nel restauro degli strumenti ad arco, ma anche cercando di ridurre e smaltire correttamente gli scarti in ottica di offrire una produzione più sostenibile».

«Credo di essere l’unica donna socia di un cappellificio» fa eco Elisa Vimercati, 37 anni, titolare insieme al fratello Fabrizio e al cugino Roberto dell’ultimo cappellificio di Monza, che fino alla Seconda guerra mondiale è stata la capitale del copricapo. «Anche il cappellaio è sempre stato un mestiere maschile, le donne erano impiegate al massimo per cucire fodere o nastri. Io stessa, pur essendo una di famiglia, ho fatto la gavetta come dipendente e solo da 4 anni sono subentrata come socia».

Il cappellificio Vimercati – giunto alla terza generazione e a 71 anni di attività – ogni anno produce circa 13mila pezzi quasi esclusivamente per l’estero e soprattutto per Israele, dove sono molto richiesti i cappelli neri tradizionali. La produzione – dall’informatura alla scatolatura – richiede circa 20 giorni, tra fasi di lavorazione e tempi di riposo. La tecnica e i macchinari sono ottocenteschi: nella fabbrica adagiata sulla sponda del Lambro, pieghe e messe in forma si fanno ancora con il vapore.

«Essere rimasti in pochi (e gli unici in Lombardia) a lavorare come una volta rende più difficoltosa la logistica: trovare pezzi di ricambio è impossibile e siamo noi ad adattare le macchine da cucire alle esigenze del cappellificio. Siamo abituati ad arrangiarci! Anche a livello di contributi, quelli stanziati sono sempre per le industrie e non per piccolissimi artigiani come noi».

Chiara Moirano lavora nell’unico laboratorio in Italia che ancora realizza bardature per cavalli e attacchi per carrozze - Collaboratori

Oppure come la Selleria Moirano di Strambino, in provincia di Torino, l’unico laboratorio in Italia che ancora realizza bardature per cavalli e attacchi per carrozze. Un tuffo nel passato in cui inaspettatamente ci guida una donna di 31 anni, Chiara Moirano.

«Restauriamo carrozze per musei, polizia, carabinieri e per gli appassionati che partecipano a concorsi internazionali e sfilate realizziamo finimenti personalizzati. Ogni lavoro è un pezzo unico tarato sulle caratteristiche del cavallo e il gusto del committente: il cuoio è tagliato a mano, le fibbie fuse in casa e la paglia che fodera la collana del cavallo è raccolta filo per filo». Per la consegna occorrono un paio di mesi e perciò la produzione annuale della Selleria – che trova pochi equivalenti solo in Belgio, Spagna, Portogallo e Ungheria – si attesta su una decina di pezzi. «Nei lavori artigianali la domanda è fisiologicamente in calo. Per sopravvivere devi eccellere e offrire un prodotto che nessun altro è in grado di fare: solo così giustifichi i costi e le tempistiche che altrimenti sarebbero fuori mercato. Certo non ti rendono la vita facile: la burocrazia, soprattutto con gli enti pubblici, è estenuante».

Lavora a contatto con tecniche antichissime anche Alice Vitelli, calzolaia di Sant'Elpidio a Mare (Fermo), che nella sua impresa ha però implementato strumenti di vendita digitali trasformandosi in un perfetto esempio di artigiana 2.0. Insieme al fratello Gian Luca, ha ereditato il calzaturificio del papà; ha conservato le forme di suole e scarpe, ha aggiunto colori e pellami selezionati tra gli scarti di altissima qualità di aziende limitrofe e ha fondato un suo marchio di scarpe su misura acquistabili online: “La Scarpetta di Venere”. Vitelli, 38 anni, non ha sempre pensato di lavorare in calzaturificio. Anzi, con una laurea in Economia all'Università di Bologna, forse nemmeno pensava di rientrare nella sua regione. Invece poi la crisi finanziaria e la delocalizzazione delle fabbriche da parte delle aziende da cui il calzaturificio otteneva commesse, l’hanno spinta a rientrare.

«Mio padre non capiva cosa volevamo fare; ma noi siamo andati avanti e nel 2014 abbiamo creato il nostro marchio, con modelli di scarpe completamente personalizzabili». Oggi “La Scarpetta di Venere” ha un negozio a Sirolo, la località sul Monte Conero più turistica delle Marche, una pagina Instagram seguitissima e un e-commerce attraverso cui riceve ordini da tutta Italia. Dal 2014 le scarpette sono arrivate a Bologna, Milano, Roma con la formula dei temporary store. «In fabbrica ci sono 6 collaboratrici, tutte donne; il montaggio viene fatto a mano, con colla e tenaglia. Vorrei insegnare il mestiere ad altre giovani; mi sto avvicinando agli istituti professionali della zona per capire se qualche ragazza ha voglia di fare con me questa rivoluzione».

Alice Vitelli, calzolaia, ha realizzato il marchio La Scarpetta di Venere - Collaboratori