Attualità

INCHIESTA. Armi leggere, mercato di morte che non ha conosciuto la crisi

Francesco Palmas mercoledì 6 gennaio 2010
«Ho visto la mitraglia Maxim uccidere i nostri da 500-800 metri», lamentava un combattente nigeriano nel 1902. L’invenzione di Harold Maxim aveva 18 anni appena e un palmares già ricco di stragi, in Uganda, Rhodesia, Kenia e Costa d’Oro. «Era la guerra dell’uomo bianco», ma ancora per poco, perché dello strumento quasi invincibile vollero dotarsi un po’ tutti. Dalle mitragliatrici si passò ai fucili mitragliatori e automatici, in un crescendo di sadismo. L’idea degli ultimi venne a un ufficiale del Regio esercito, Amerigo Cei-Rigotti, ma l’inventore per antonomasia ha nome russo: Michael T. Kalashnikov, figlio della Seconda guerra mondiale e padre dell’arma più brandita al mondo: l’AK-47 delle troppe guerriglie e dei 70 milioni di esemplari.L’Albania degli anni 90, la Transnistria, i Balcani occidentali e l’Africa subsahariana insegnano che i traffici d’armi, stupefacenti e diamanti s’inseguono in una spirale distruttiva. L’Angola è uno spaccato esemplare delle connivenze fra mercanti di morte e pietre preziose, ex agenti e funzionari corrotti. Esemplare ma incomprensibile senza l’apporto del mercenario eclettico, spesso veterano dei servizi segreti, capace di esser al contempo intermediario per la vendita, pilota e nocchiero per il trasporto, istruttore per l’uso e consulente paramilitare. Figura tutt’altro che romantica, sublimata dalla crescente privatizzazione della guerra, habitat ideale per trafficanti senza scrupoli, mercenari avidi di pecunia e network criminali a caccia di professionisti già formati. Sfumando il confine fra legale e illecito, anche gli interessi si confondono. Società un tempo impegnate in altri affari sono entrate improvvisamente nel mercato militare e della sicurezza, fornendo contatti altolocati. Molteplici rapporti delle Nazioni Unite denunciano che i terminali del traffico d’armi sono spesso le nomenclature politico-amministrative ed economico-militari. In Ciad, Mali e Niger, è la droga a finanziare quote crescenti di equipaggiamenti terroristici e criminali. Nel Sud-est asiatico, la situazione è fuori controllo: 63 milioni di armi da fuoco sarebbero in mano civile, mentre il contrabbando strangola l’India e il Bangladesh. La materia prima non manca, soprattutto dopo il crollo dell’Urss. La Germania Orientale ha svenduto interi arsenali e l’ex Cecoslovacchia tonnellate di esplosivi: il Semtex-H è finito talmente copioso in Medio Oriente da poter alimentare mezzo secolo di attentati, come sanno bene i marinai della «USS Cole».Veterani russi del Kgb e del Gru (servizi segreti militari) hanno saccheggiato la Transnistria, facendone un bazar d’illeciti internazionali. Godono di connivenze ucraino-kazako-bielorusse, di legami con gli arsenali ex sovietici e sanno come persuadere i produttori locali. I Balcani occidentali pullulano di depositi sino-sovietici e di capacità autoctone. Fra gli Stati successori dell’ex Jugoslavia, Serbia, Croazia e Bosnia alimentano traffici crescenti. Finita la guerra, la produzione è ripresa a ritmi forsennati. Son spuntate fabbriche clandestine, di pistole e lanciarazzi: Zastava e Beretta modificate, ma anche missili spalleggiabili Strela, arcinoti all’Europol. Fra il 2000 e il 2006, l’export serbo di armi leggere e di piccolo calibro (Salw) si è moltiplicato del 751.000%, irradiandosi fino in Myanmar e Camerun. Mortai bosniaci da 60 e 82 mm hanno combattuto per i georgiani nella guerra russo-osseta. Dalle Filippine alla Colombia è un continuum di guerriglie ideologiche, movimenti secessionisti, cartelli criminali e dispute per il predominio regionale. Fra giungle, savane, montagne e scenari urbani, non vi è angolo del Pianeta senza "armi leggere e di piccolo calibro" (Salw): oltre 600 milioni di pezzi, abbastanza da equipaggiare un terrestre su dieci. L’arsenale aumenta di anno in anno, al ritmo di 8-10 milioni, prodotti da un migliaio di gruppi industriali trans-planetari.Benedetto XVI, rivolgendosi ai partecipanti della recente Conferenza di Cartagena sul Trattato contro le mine anti-uomo, ha lanciato un appello perché si contrasti anche l’uso delle armi leggere, ribadendo che «la difesa degli interessi nazionali non può mai, né deve andare a detrimento delle popolazioni civili, in particolare dei più deboli».Quello delle armi leggere è un mare magnum in cui sguazzano 51 Paesi legalmente produttori, 45 assemblatori e 31 riproduttori su licenza, ventisei irregolari e mafie cosmopolite. La piovra camorristica triangola con l’Eta, i cartelli della droga colombiani e le Farc: armi in cambio di stupefacenti. In mezzo un fiume di denaro: quasi 3 miliardi di euro per la sola ’ndrangheta. Cifre tanto più impressionanti, quanto più paragonate all’accidia dei programmi multilaterali per il disarmo e la contro-proliferazione: appena 230 milioni l’anno.Molto si aspetta dal trattato Onu sui trasferimenti di armi convenzionali, negoziando entro il 2012. Ma la storia insegna che i macroaccordi sul disarmo sono sempre stati aggirati, a meno di non militarizzare le frontiere. Fra Angola e Namibia, i kalashnikov cambiano proprietario per 8 dollari; a Napoli, per 20 euro. Sotto embargo, il Congo si è procurato armamenti d’ogni tipo e d’ogni dove: dagli AK-47 ai mortai, senza considerare i calibri pesanti. A dettar legge sono i diamanti, sporchi e insanguinati: dei 600 milioni di dollari esportati, 400 sono in nero e rimpatriano in gran parte sotto forma di armi.