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La commissaria europea agli Affari interni. Johansson: «Aprire vie legali ai migranti»

Céline Schoen, Bruxelles giovedì 25 giugno 2020

La commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson

"Avvenire", il quotidiano francese "La Croix" e l’olandese "Nederlands Dagblad", uniti da rapporto di cooperazione giornalistica ispirata ai comuni valori cristiani, hanno deciso di tentare un bilancio del percorso dell’Europa nei 5 anni che sono trascorsi dal 2015, l’anno ricordato per la «crisi dei rifugiati». Con reportage, analisi e interviste i tre giornali intendono proporre ai rispettivi lettori un lavoro ispirato da una riflessione condivisa e dalla volontà di mostrare il bene che esiste nella società europea e i passi che restano da compiere nella costruzione di una casa comune aperta ai principi di solidarietà, responsabilità, accoglienza. Gli articoli realizzati dai giornalisti dei tre quotidiani, ideati insieme, vengono pubblicati sulle rispettive testate per offrire all’opinione pubblica di Italia, Francia e Olanda uno sguardo aperto a un orizzonte più vasto di lettura e comprensione dei fenomeni. Questo progetto in particolare prende spunto dall’anniversario di un anno che ha segnato il destino del nostro continente: nel 2015 oltre un milione di rifugiati e migranti raggiunsero le coste europee e durante il viaggio in migliaia persero la vita. La stragrande maggioranza partiva da Paesi dilaniati dai conflitti: la Siria, l’Afghanistan, l’Iraq. Una vicenda che costrinse l’Europa a porre al centro dell’agenda politica la questione dei rifugiati, dell’accoglienza e dei ricollocamenti. Una questione ancora drammaticamente aperta.

A causa della crisi sanitaria, Ylva Johansson, svedese, commissaria europea agli Affari interni, ha dovuto rinviare di molti mesi la presentazione dell’atteso Patto su asilo e migrazioni. Tuttavia rimane convinta che, presto, sarà possibile raggiungere un accordo tra i ventisette Stati membri.

La pandemia ha fatto emergere la necessità di un’inedita solidarietà finanziaria in Europa. Questa solidarietà può esprimersi anche a favore della gestione comune dei flussi migratori?
Molti mi chiedono se penso che sarà più difficile trovare un accordo in materia di asilo e migrazione a causa del Covid-19. La mia risposta è no. Ma sarà più facile plasmare la solidarietà? Non credo. Ho deciso di aspettare che all’interno del Consiglio si raggiunga un accordo preliminare sul prossimo bilancio dell’Unione Europea e sui fondi per la ripresa prima di proporre il nuovo Patto, perché le questioni migratorie sono così spinose e difficili da negoziare che è meglio aspettare un po’ di tempo. Se siamo fortunati, il Patto potrà essere messo in agenda a luglio. Ma probabilmente bisognerà aspettare settembre.

Senza un accordo sul futuro quadro finanziario pluriennale, sarà impossibile negoziare il Patto?
Per questo negoziato serviranno molto tempo e molte energie. È necessario che i negoziatori non siano assorbiti da altre questioni. Sono in contatto con le varie capitali europee e molti mi hanno chiesto di aspettare la chiusura dei colloqui sul bilancio. È così che intendo muovermi.

Gli immigrati sono necessari per contrastare il declino demografico europeo?

Sì, abbiamo bisogno di immigrati. Ogni anno più di 2 milioni di migranti arrivano nella Ue legalmente. E questo sistema funziona molto bene. Sempre meno persone arrivano in modo irregolare. L’anno scorso sono state 170mila. Ma vorrei vedere un aumento del numero di arrivi legali. L’Europa ha bisogno di manodopera perché il continente invecchia. In diversi Paesi alcuni settori del mondo del lavoro soffrono una grave carenza di capitale umano.

«L'integrazione si realizza soprattutto a livello locale e regionale: non ci "si integra" mai in un Paese, ci si integra nelle comunità. Chiese o Ong sono alcune di queste comunità»


Cinque anni dopo la crisi del 2015, cosa ne pensa dell’integrazione degli immigrati che sono venuti in Europa per cercare rifugio?

Molti di loro si sono integrati molto bene. L’abbiamo visto anche durante la crisi del Covid-19: numerosi "lavoratori essenziali" provengono da famiglie immigrate o sono stati loro stessi migranti. Ma resta ancora molto da fare in materia di integrazione. Si tratta di una questione di competenza nazionale, ma a livello europeo siamo pronti a dare il nostro aiuto. A questo proposito, abbiamo avviato delle consultazioni in vista dell’elaborazione di una nuova strategia in materia di integrazione.

Quali sono i punti chiave affinché il processo di integrazione abbia successo?

L’essenziale è fare in modo che chi arriva possa essere attivo nel mercato del lavoro, che i figli vadano a scuola e che riescano a guadagnare presto uno stipendio e così integrarsi nella società. L’integrazione del resto si realizza soprattutto a livello locale o regionale: non ci "si integra" mai in un Paese, ci si integra nelle comunità. Chiese e Ong sono alcune di queste comunità.

Come giudica il ruolo delle Chiese nel processo migratorio?

I rappresentanti delle Chiese hanno molta esperienza e capacità propositiva. Le Chiese sono fortemente impegnate nel sostegno ai rifugiati, nella loro integrazione. Le Chiese sono esse stesse delle società, sempre in movimento, e i loro esponenti spesso conoscono meglio di chiunque altro ciò che funziona e ciò che non funziona nella società più ampia.

«Le denunce di "Avvenire" e "The Guardian"? Mi preoccupano. Il principio di non respingimento è essenziale. Spetta agli Stati indagare»

Secondo Natascha Wagner, dell’Istituto internazionale di studi sociali (Iss), oltre la metà dei rifugiati siriani in Germania desidera, in futuro, tornare nel Paese d’origine. Cosa può fare la Ue in materia di migrazione di ritorno?

La società può favorire l’integrazione, ma è necessario che alla base ci sia la volontà di integrarsi. A ballare bisogna essere in due! Di fatto alcune persone preferiscono ritornare in patria. Noi possiamo semplificare il rientro. Anche il reintegro nei Paesi d’origine è un aspetto importante. Nella mia proposta riserverò una particolare attenzione al fenomeno dei rientri e della cooperazione con i Paesi terzi, un’attenzione ancora maggiore rispetto alla proposta del 2016, che si inseriva nel contesto della crisi dei rifugiati. Oggi, invece, alla maggior parte delle persone che arrivano in modo irregolare non verrà concesso l’asilo, perché non hanno bisogno di protezione internazionale.

L’immigrazione definita "illegale" può essere convertita al 100% in immigrazione legale in Europa?
Non voglio parlare di immigrazione "illegale", ma "irregolare". In ogni caso, no, non penso che l’immigrazione irregolare possa diventare al 100% legale. Tutti devono avere sempre il diritto di chiedere asilo da qualche parte. È un diritto fondamentale dell’individuo. Affinché nessuno debba dipendere dai trafficanti è fondamentale aprire il maggior numero possibile di vie legali per la migrazione. Per chi desidera lavorare nella Ue dobbiamo stringere accordi migliori con i Paesi terzi. La conseguenza non sarebbe una fuga di cervelli, ma una situazione vantaggiosa per entrambe le parti. Anche per i rifugiati abbiamo bisogno di vie legali, in particolare attraverso il reinsediamento e l’ammissione umanitaria.

La Turchia è un partner affidabile per la Ue?

La Turchia è il Paese che accoglie la più grande comunità di rifugiati al mondo. In Turchia vivono quattro milioni di siriani. Per essere equa, la Ue deve mostrarsi solidale con loro. Noi aiutiamo la Turchia, così come altri Paesi, con le scuole, paghiamo i professori, finanziamo i centri sanitari. La solidarietà europea è anche questo. Ci sono 80 milioni di sfollati nel mondo; non tutti i migranti e i rifugiati possono e vogliono venire nella Ue. Ma noi abbiamo l’obbligo morale di aiutarli, ovunque si trovino.


È favorevole alla migrazione circolare europea, con una pianificazione dei flussi in entrata e in uscita?
Si tratta di una questione che riguarda soprattutto i singoli Stati, ma dal mio punto di vista, possono coesistere diversi sistemi. Alcune persone verranno a vivere in Europa in modo permanente. Altri verranno a lavorare in Europa per un certo periodo di tempo prima di ritornare nel proprio Paese con nuove competenze.

Avvenire, The Guardian e altri organi stampa e Ong hanno denunciato casi di respingimento da parte di Malta verso la Libia. Le Nazioni Unite sostengono che la Libia non è un "Paese terzo sicuro". Che cosa ne pensa la Commissione?
Queste denunce mi preoccupano. Il principio di non respingimento è essenziale. Spetta agli Stati indagare per sapere cosa succede esattamente. Per Malta la situazione è complicata, molti migranti su una piccola isola. È anche per mostrare più solidarietà nei confronti di Paesi come Malta che abbiamo bisogno di un nuovo Patto.

Fino a che punto la Ue conta di cooperare, sostenere e finanziare la cosiddetta Guardia costiera libica?
Noi cooperiamo in termini di formazione, di rispetto dei diritti umani. Ma non è un compito facile. È difficile realizzare una vera cooperazione con la Libia. Ma ci piacerebbe trovare un modo efficace di fare passi avanti con questo Paese.

Alcuni segnali provenienti da Stati come la Danimarca o dal Gruppo di Visegrad vi lasciano pensare che sia possibile trovare una soluzione condivisa tra i 27 Paesi membri?
Sbloccare le reticenze degli uni e degli altri all’interno del blocco è estremamente difficile. Ma ho l’impressione che tutti gli Stati membri vogliano trovare un accordo e cercare di essere costruttivi. L’approccio è positivo.

Come fare in modo che i Paesi che accettano la sfida della ricollocazione non si sentano danneggiati rispetto agli altri che la rifiutano?
È uno dei problemi centrali che dobbiamo affrontare, una delle questioni più sensibili. Bisognerà ritornarci quando il Patto sarà sul tavolo.

Abbiamo bisogno di altre 10mila guardie di frontiera europee per Frontex?
Sì, penso che siano necessarie, ma tutto dipende dal budget. Quindi bisognerà vedere se gli Stati accetteranno di finanziarle. Alcuni Paesi vogliono ridurre il budget di Frontex. Dovremo aspettare la fine dei negoziati sul bilancio.
(La Croix)

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