L'inferno di Giugliano. Resit, confermate in appello le principali condanne
Dev’esser stato contento Lassù. Le condanne dei personaggi chiave sono confermate, con lievi sconti, anche in questo secondo grado. È confermata la tesi della Dda di Napoli sul disastro ambientale e sull’inquinamento delle acque a Giugliano, nella discarica “Resit”, 56mila metri quadrati dove furono sversate 341mila tonnellate di rifiuti pericolosi e speciali, come i fanghi dell’Acna di Cengio. Dove la terra fuma senza fuoco. Ed è confermata l’associazione mafiosa.
Così la Corte d’Appello di Napoli ha condannato Cipriano Chianese a diciotto anni di carcere, due in meno rispetto al primo grado. A quindici anni Gaetano Cerci, uno in meno. A dieci anni il geometra Remo Alfani, che ne aveva presi dodici dalla Corte d’Assise. Ha invece assolto molti altri condannati in primo grado, come l’ex subcommissario all’emergenza rifiuti in Campania Giulio Facchi (che era stato condannato a cinque anni e quattro mesi) e tre imprenditori casertani (che erano stati condannati a pene da cinque anni e mezzo a sei).
Una tesi che muove da lontano, almeno ventidue anni fa. Quando Roberto Mancini, poliziotto romano, condusse un’indagine che lo fece ammalare e poi morire di cancro. Vi lavorò oltre due anni, poi redasse una lunga e dettagliata informativa di 239 pagine, che il 12 dicembre 1996 consegnò alla Dda di Napoli, dove venne “dimenticata” quattordici anni. Finché un magistrato quarantaquattrenne, Alessandro Milita, la trovò, ben chiusa in un armadio. Lesse. E decise di riaprire i giochi.
Perché Roberto aveva scoperto per primo il business impressionante dei rifiuti tossici. Svelando nomi, fatti, circostanze non solo sulla vicenda “Resit” , ma mezza Italia. Dentro c’erano tutti, imprenditori e politici, banchieri e finanzieri, pubblici amministratori magistrati, camorristi e colletti bianchi. Tutti «concorrono alla realizzazione di un progetto unico dagli effetti letali per il sistema economico nazionale e per l’ambiente», scriveva subito il poliziotto, a pagina 4. E poi, quasi alla fine, a pagina 223, che in quei territori «il meccanismo illegale di smaltimento dei rifiuti è elevato a sistema ordinario».
Il pm Milita lo chiamò. Roberto era già malato, ma non si tirò indietro. Più di una volta faceva di mattina a Roma la chemio, poi saliva su un treno e nel pomeriggio raggiungeva a Napoli quel giovane magistrato. Più di una volta, spossato dalla malattia, dopo avere esaminato documenti e circostanze con Milita, doveva sdraiarsi su un divano in una stanza della Procura napoletana. La camorra «è padrona e signora delle terre e dei destini delle locali popolazioni» - si legge a pagina 7 di quell’informativa - e i traffici di rifiuti tossici «coniugano l’estrema rimuneratività a una assicurata impunità».
Roberto muore il 30 aprile 2014. Ha cinquantatrè anni. Nel 2010 gli era stata riconosciuta dal ministero delle Finanze la “causa di servizio” del suo tumore, ma un indennizzo grottesco: 5mila euro. Cinque mesi dopo la sua morte gli verrà invece riconosciuto essere stato “vittima del dovere” e quindi anche il sostegno alla sua famiglia (Monika la moglie e Alessia, la giovanissima figlia). I fanghi tossici alla Resit? «I controlli dell’ispettore della Usl di Giugliano – si legge a pagina 122 - sono esclusivamente formali e sostanzialmente falsi, essendo limitati alla semplice presa d’atto di quanto riportato sulla bolla d’accompagnamento (dei rifiuti, ndr) e non alla verifica di ciò che materialmente viene trasportato e smaltito».
Nonostante tumore, chemio e ricoveri, Roberto resta a lungo al fianco del pm di Napoli, lo aiuta nelle indagini. Al poliziotto daranno anche la Medaglia d’oro al Valor civile, appuntandola sul petto della figlia Alessia il 23 maggio 2015, un anno dopo la sua morte: «Per essersi prodigato, nell'ambito della lotta alle ecomafie, con straordinario senso del dovere ed eccezionale professionalità nell'attività investigativa per l'individuazione, nel territorio campano, di siti inquinati da rifiuti tossici illecitamente smaltiti – si legge nella motivazione -. L'abnegazione e l'incessante impegno profuso, per molti anni, nello svolgimento delle indagini gli causavano una grave patologia che ne determinava prematuramente la morte».
Non fa in tempo ad assistere alla sentenza di primo grado. Il 16 luglio 2016 Cipriano Chianese, avvocato e imprenditore, che Roberto chiamava il “broker dei rifiuti”, viene condannato a vent’anni. A sedici Gaetano Cerci, imparentato (e non solo) col boss dei casalesi Francesco Bidognetti. Con loro molti altri. In aula c’è Monika Mancini. E c’è Alessia, che da grande diventerà poliziotta, «come papà». Non esultano alla lettura della sentenza, in serata, dopo quasi nove ore di camera di consiglio. Non c’è nulla da festeggiare. Però adesso sanno che il sacrificio di Roberto è servito.
Il secondo atto è appunto appena di ieri. Con la sentenza d’appello che in pratica conferma la prima, a parte le assoluzioni di cui si è detto all’inizio. Scriveva Roberto Mancini a pagina 173 della sua informativa di ventuno anni fa: Cipriano Chianese aveva «l’intima convinzione di trovarsi nelle condizioni garanti, alla lunga, di una impunità blindata». Una convinzione sbagliata.