Lontani dagli occhi, lontani dal cuore? Ci sono tendopoli all’Aquila e frazioni terremotate che devono fronteggiare la sovraesposizione mediatica, tra troupe televisive invadenti e cronisti a caccia di lacrime a tutti i costi. Ma c’è anche chi, lontano suo malgrado dalle luci della ribalta dell’informazione, rischia di essere dimenticato. Sono le tendopoli-cenerentola sparse nel parco nazionale del Gran Sasso. Come quella di Campotosto, dove a 1.400 metri d’altezza la notte si gela ma il campo è ancora senza luce elettrica, né stufe. Come pure a Marana, che ieri sera aspettava con pazienza ammirevole i tecnici del genio militare per l’allaccio elettrico. O ad Arischia, dove la tendopoli è a posto, ma gente si sente abbandonata, perché tutti parlano di Onna, ma nessuno racconta di questo centro storico dove si è aperta una voragine grande quanto una macchina o della chiesa del ’300 che rischia di crollare. Per arrivare al lago di Campotosto dall’Aquila ci sono 45 chilometri di tornanti. Ci si mette quasi meno per arrivare nella Capitale che è a 110 chilometri. Ma gli aquilani qui ci vengono volentieri: l’aria fina, il panorama delle montagne attorno, i prati dove pascolano cavalli, mucche e pecore attirano turisti in cerca di un angolo di paradiso. Di solito già da Pasqua qui c’è il pienone. Quest’anno è diverso. La terra che trema ha cacciato via tutti. Le scosse più violente, però, qui non sono state quelle della notte di domenica 6. «Le case hanno cominciato a lesionarsi seriamente con le scosse di mercoledì e giovedì scorso – racconta l’assessore ai Lavori pubblici Antonio Di Carlantonio – quando l’epicentro dall’Aquila s’è spostato più a Nord. Mercoledì l’epicentro è stato proprio qui e il sisma ha raggiunto i 5,2 gradi Richter». La gente ha capito che non poteva più tornare di giorno a casa dopo la nottata in macchina. Don Juvens Velondranzana, il parroco di origine malgascia, ha fatto la spola con Avezzano e l’Aquila portando le prime tende della Caritas. Qui c’era una grande tensostruttura che i paesani si sono montati da soli e che funge da mensa, sala comunitaria e magazzino. Poi sono arrivate cinque tende blu della Protezione civile e una decina bianche della Croce Rossa svizzera. Ora qui risiedono la gran parte dei 200 residenti di questo comune montano. Ma nella notte tra Pasqua e il lunedì dell’Angelo il tempo è bruscamente cambiato. «Una nottata tremenda – ricorda Fabrizio Calandrella, piccolo imprenditore edile – perché c’è stata una vera bufera. Acqua, neve, il vento stava spicchettando le tende. E ha strappato le pareti al tendone mensa». La pioggia si è rifatta viva in questi giorni. Una donna cerca di asciugare il pavimento interno della sua tenda con uno strato di cartoni. Tra l’umidità del lago e il gelo dai monti innevati, la notte qui è dura. E la mattina la brina imbianca tutto. Nel tendone-mensa ci sono le quattro stufe a fungo a gas che stavano in chiesa. Ma nelle tende solo le coperte. «Lunedì i militari hanno fatto un sopralluogo – spiega l’assessore – e ci avevano detto che avrebbero portato la corrente stasera (ieri per chi legge, ndr).Ma non s’è ancora visto nessuno». Marana di danni non ne ha subiti molti. Qui è la paura che impedisce alla gente di rientrare a casa la sera. «Anche quando la scossa mi sveglia in tenda mi prende un colpo – confessa Mimma Cavalli, consigliera comunale – ma qui non mi può cascare nulla in testa, sotto a un soffitto morirei d’infarto mille volte». Così la gente di giorno si avventura in casa, magari cucina anche, la sera va nelle 25 tende blu montate a fianco dello stradone che ospitano 150 tra famiglie e anziani. Don Rubens Dario Carmona Rodriguez, il parroco colombiamo, alla poltrona della canonica preferisce il sedile della Fiat Uno parcheggiata in cortile. E indica la crepa che dal portale settecentesco della chiesa sale su e spacca in due l’architrave della finestra della facciata. Il Genio militare ha preparato gli allacci e i quadri, mancano le lampade dentro le tende e le stufe, che anche qui, a più di 800 metri di altitudine, farebbero un gran comodo. «Aspettiamo che vengano a montarle da un momento all’altro – dice fiduciosa Mimma Cavalli – ma capiamo che ci sono altre precedenze. Non possiamo essere egoisti. A L’Aquila hanno perso le case e i parenti. È gente segnata per tutta la vita. Non siamo stati dimenticati». A guardare i tigì e a sfogliare i giornali, invece, Marcello Masci il timore che Arischia sia stata dimenticata ce l’ha. Non dai soccorsi, che in questa frazione ha portato tende, corrente elettrica e ora anche le docce. Masci è il delegato del sindaco dell’Aquila per Arischia, come un presidente di municipio nelle grandi città. «Tutti parlano di Onna, di Paganica, del centro dell’Aquila. Ma anche il nostro nucleo storico è distrutto per l’80%. E la chiesa di San Benedetto, gioiello romanico, è lesionata in modo gravissimo, ho paura che debbano abbatterla. E nessuno ne parla. Sabato ho convocato un’assemblea pubblica – dice Masci che nella vita è insegnante di lettere – per spingere i compaesani a parlare del futuro e non solo a piangere su questa tragedia. Questa era già un’area depressa economicamente, il rischio è la fine di questa comunità. Anche se il ministero non intendesse riavviare l’anno scolastico, mi impegnerò personalmente per riavviare le lezioni comunque. Il timore è che le periferie vengano abbandonate a se stesse se perdono l’attenzione dei media». Il timore più grande di Abramo Colageo, pensionato Telecom col pallino della storia - su questo paese ha scritto cinque libri - è che il duomo benedettino di Arischia sia arrivato alla fine della sua vita millenaria. Costruito nel X secolo, viene ampliato nel 1370 dopo un violento terremoto. Stesso copione nel 1520. Poi arriva il cataclisma del 1703, quando il 3 febbraio crolla sui fedeli riuniti per la Candelora: «Il vescovo Ludovico Antino scrive che la scossa durò un miserere», dice Colageo. Nel campanile una lapide dice «Riedificata post terremotum Annus Domini 1715». La sua speranza è che tra qualche anno sullo stesso muro se ne possa apporre un’altra.