Il territorio è mio e me lo gestisco io. Se c’è una morale da cogliere nel dibattito che i progetti infrastrutturali sollevano a livello locale, è proprio questa: i cittadini vogliono contare di più. E accanto a quanti, sempre più numerosi, si oppongono al passaggio di un’autostrada, alla realizzazione di una discarica per i rifiuti, alla costruzione di una centrale o di un rigassificatore, è spuntata una nuova minoranza: quella di chi chiede di poter essere coinvolto nei processi decisionali e guarda con favore allo sviluppo del Paese. La battaglia si svolge a colpi di acronimi inglesi: Nimby, Not in my back yard, contro Pimby, Please in my back yard. Tradotto: volete costruire? «Non nel mio giardino » dicono i Nimby. «Va bene, a certe condizioni» rispondono i Pimby. Dietro a questo gioco di parole si muovono lobby e gruppi di pressione, il «popolo del no», più forte su base locale, e il «popolo del sì», che risulta più incisivo nel dibattito nazionale. A dire «no» sono tanti: secondo il rapporto presentato settimana scorsa a Milano 264 impianti sono al centro di contestazioni in tutta Italia. In testa ci sono i termovalorizzatori, seguiti dalle centrali a biomasse e dalle discariche di rifiuti urbani, con la Lombardia a cui spetta il primato di regione col maggior numero di strutture apertamente osteggiate (41). Dal punto di vista mediatico, invece, resta la Tav il tema di cui più si è parlato sui giornali, seguito dall’emergenza rifiuti in Campania.
La mappa di chi è «contro» C’è il rischio di territori l’uno contro l’altro armati, proprio a causa dei veti sulle infrastrutture? Per ora no. «Molti sindaci e molte aziende ci stanno coinvolgendo in progetti che presuppongono la creazione di consenso sui territori. Tra chi dice no e chi dice sì, occorre riconoscere un’autorità 'terza' in grado di farsi carico dei bisogni di sviluppo delle comunità» riflette Patrizia Ravaioli, presidente dell’associazione Pimby che, in modo bipartisan, raccoglie economisti, opinion maker e politici favorevoli a un’accelerazione dello sviluppo infrastrutturale del Paese. «Non vedo comitati a favore delle grandi opere in giro per l’Italia – risponde Stefano Ciafani, responsabile scientifico di Legambiente – . Il cosiddetto 'popolo del sì', sugli impianti, fa fatica ad emergere, tanto che un’associazione come la nostra nel panorama dell’ambientalismo italiano si posiziona sempre di più come realista e pragmatica». Dall’Ilva di Taranto al rigassificatore di Porto Empedocle, dalla centrale termoelettrica di Bertonico, nel Lodigiano, ai termovalorizzatori del Nord, la mappa delle contestazioni si arricchisce di anno in anno, nonostante gli sforzi di comunicazione delle imprese e il diffondersi di osservatori. «Il percorso di dialogo con i territori compiuti in Val di Susa sull’Alta velocità ha dimostrato che il dialogo serve, al contrario della logica del muro contro muro», osserva Ciafani. Il problema è che spesso le localizzazioni degli impianti sono decise dalle aziende e non dalla politica, che arriva «sul pezzo» in colpevole ritardo.
C’è persino la «sindrome Banana» A Poggibonsi, in Toscana, hanno da poco inaugurato un termovalorizzatore che consente di minimizzare il conferimento dei rifiuti solidi urbani in discarica e contemporaneamente produce energia per il consumo domestico di oltre 40mila persone. «Non ci sono state contestazioni e ci sono voluti pochi mesi perché la struttura iniziasse a funzionare» commenta Ravaioli. «Dalla sindrome Nimby siamo passati semmai alla sindrome Banana, ( Build absolutely nothing anywhere near anything, non costruire nulla vicino a niente e nessuno). Anche noi ci battiamo perché i territori vengano ascoltati, però poi occorre che dalle discussioni si passi alla definizione di un progetto e alla decisione ». Il modello è la Francia, dove le diverse città fanno a gara per aggiudicarsi opere di valore strategico, con l’ultimo caso di Flamanville, la località francese che ospita i cantieri della prossima centrale nucleare di ultima generazione. «Ma l’atteggiamento decisionista del governo non aiuta – sottolinea Ciafani – e se si pensa di aprire le prossime centrali nucleari con l’esercito, diremo no a possibili pieghe autoritarie». L’orizzonte condiviso invece dovrebbe essere un coinvolgimento maggiore dei territori nelle scelte su base nazionale. «Ciò che manca in Italia è proprio una legislazione che consenta di prendere le decisioni, regolamentando le modalità di partecipazione dei cittadini ai processi decisionali». Un obiettivo importante, soprattutto alla luce del confronto che si è già aperto sul ritorno all’atomo nel nostro Paese.