Migranti. Ancora più baracche e degrado. Fra gli ultimi di padre Arcangelo
«Padre Arcangelo ci ha fatto un regalo, erano anni che non riuscivamo a celebrare una Messa al 'gran ghetto'». Così riflette don Andrea Pupilla, direttore della Caritas di San Severo, al termine della celebrazione per il trigesimo di padre Arcangelo Maira, missionario scalabriniano, 'angelo' dei ghetti foggiani, morto ad appena 59 anni, il 21 settembre. «L’ultima Messa l’aveva celebrata sei anni fa proprio padre Arcangelo assieme a don Francesco Catalano, allora direttore della Caritas di Foggia», ci ricorda, commossa, Concetta, operatrice dei ghetti. Una Messa che è quasi un passaggio del testimone.
«E ora tocca a noi», sono le parole con le quali chiude il rito padre Gianni, anche lui scalabriniano, che ha celebrato assieme a don Andrea, padre Pablo e don Luca Santoro, vicario episcopale della diocesi di Manfredonia. Sotto al grande tendone della Protezione civile in località Torretta Antonacci, ci sono sacerdoti, operatori, volontari che hanno conosciuto padre Arcangelo e lavorato con lui. Anche alcuni immigrati che lo ricordano bene. Il missionario era venuto qui l’ultima volta nell’agosto del 2020, quando la malattia lo aveva già duramente colpito. «Volle fare un giro nel ghetto anche se faceva fatica – ricorda don Andrea –. Gli immigrati lo riconoscevano, lo salutavano, lo abbracciavano».
Perché, sottolinea padre Gianni nell’omelia, «padre Arcangelo era un buon pastore, vero missionario, non con le parole, le chiacchiere, avrebbe detto lui, ma con le opere». E infatti, aggiunge, «lui è stato le mani, i piedi, la bocca dei più deboli». Il suo progetto si chiamava 'Io ci sto' e lui lo faceva tra gli immigrati, «con un’adesione personale convinta, scegliendo di stare dalla parte degli ultimi; con condivisione e ascolto attento e rispettoso; proteggendo e aiutando». Così nella preghiera dei fedeli padre Arcangelo è definito 'un angelo custode' e si prega «perché la benedizione di Dio si estenda su questa terra così martoriata». L’impegno e i progetti di padre Arcangelo continuano a camminare con le gambe di altri sacerdoti e volontari. In particolare la scuola per immigrati che proprio padre Arcangelo iniziò. In questi giorni nell’insediamento vivono quasi 1.700 immigrati, circa 140 nei container portati dalla Regione, più di 1.500 nell’enorme baraccopoli. Qui anche in questo anno di pandemia non è mancata la presenza degli operatori della Caritas di San Severo, tutti i giovedì con lo sportello informativo, e il resto della settimana in sede. Ma soprattutto la scuola, in collaborazione con l’associazione Baobab. Durante i mesi estivi vi hanno partecipato 30 immigrati e altri 30 alle lezioni iniziate a settembre.
E ora, ci dicono Domenico e Bruno, formatori di Baobab, «vorremmo intitolare la scuola proprio a padre Arcangelo ». Ma non c’è solo la scuola. Altri 10 immigrati hanno partecipato al corso di formazione sulla sicurezza sul lavoro realizzato, nell’ambito del progetto Sipla, con la società Adecco. Prossimamente partiranno dei corsi professionali specifici, per figure come il potatore, molte richieste dalle aziende agricole. Ma la situazione resta molto grave. Facciamo un giro tra le baracche. Il ghetto è cresciuto molto dall’ultima volta che siamo venuti qua. Molte nuove baracche e anche casette costruite con blocchetti di pietra. Una la stanno realizzando proprio ora. E poi tantissimi rifiuti, malgrado ci sia un luogo dove portarli, ma il grande cassone è vuoto. Il resto sono le immagini di sempre, 'negozietti' e bazar, un africano sta abbrustolendo pannocchie di mais da vendere, mentre un rumeno espone vestiti usati. È il 'gran ghetto' dove padre Arcangelo proteggeva e aiutava, dicendo 'io ci sto' e dove tanti ancora continuano a ripetere 'io ci sto'.