Il testimone. «Nel Golfo, dove i cattolici sono migranti» e stanno tornando dopo secoli
Il vescovo Paolo Martinelli
«Negli Emirati Arabi Uniti il 90 per cento della popolazione è straniera. E noi cattolici siamo tutti migranti, compreso clero, religiosi e il sottoscritto. Passare da Milano ad Abu Dhabi è stata un’esperienza vertiginosa e densa di insegnamenti, preziosi anche per i cristiani che vivono in Europa». Monsignor Paolo Martinelli dal 2022 è Vicario apostolico per l’Arabia meridionale, un’area di 930mila chilometri quadrati che comprende Emirati Arabi Uniti, Yemen e Oman, con 43 milioni di abitanti e dove i cattolici sono un milione, arrivati soprattutto da Filippine e India, oltre che da Sri Lanka, Pakistan, Libano, Europa, Africa e America Latina. Alla conferenza internazionale “Cambiare rotta. I migranti e l’Europa” - promossa dalla Fondazione Oasis e ospitata ieri a Milano dall’Università Cattolica - ha portato un punto di vista originale e profetico.
«Negli Emirati Arabi Uniti, i migranti risiedono per il tempo del loro lavoro. La presenza può durare alcuni o molti anni, al termine rientrano nei Paesi di origine. Svolgono i lavori più diversi, da quelli più pesanti a quelli di prestigio, portando anche presenze qualificate. Quando è possibile, tutto il nucleo familiare viene ad abitare lì, ma spesso il migrante vive da solo o nelle abitazioni costruite appositamente per i lavoratori».
Dal suo osservatorio particolare e guardando a un’Europa che sta vivendo il fenomeno migratorio in una prospettiva sempre più emergenziale, Martinelli osserva: «Siamo di fronte a un fenomeno globale che tocca tutto il mondo, che - come ha ricordato papa Francesco a Marsiglia - dev’essere governato con “sapiente lungimiranza” e che può rappresentare un’opportunità, disegnando scenari nuovi. Nel Golfo i cristiani - attestati già nei primi secoli come alcune scoperte archeologiche stanno dettagliando - sono tornati a essere una presenza consistente attraverso la migrazione, dentro quel fenomeno singolare che il cardinale Angelo Scola quasi vent’anni fa chiamava meticciato di civiltà e di cultura: uno scenario che riguarda la Chiesa ma anche le società che si devono misurare con la sfida della convivenza tra differenze».
Quattro anni fa ad Abu Dhabi papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, firmavano il Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, un atto che ha lasciato un segno profondo anche in quella regione. «È qualcosa di straordinario per l’autorevolezza di chi l’ha sottoscritto e per ciò che afferma, come la condanna della violenza in nome di Dio, la centralità dell’educazione, l’impegno a costruire insieme un mondo migliore. Da noi è nato un frutto significativo: la Abrahamic Family House, composta da una chiesa cattolica dedicata a San Francesco, una moschea e una sinagoga: una realtà dove i fedeli pregano nel proprio luogo di culto evitando ogni forma di sincretismo ma anche conoscendosi reciprocamente e sostenendo lo sviluppo di una società solidale in cui si costruisca insieme la pace e la giustizia».
Nelle nove parrocchie degli Emirati Arabi Uniti la Chiesa ha un volto giovane e plurale, inglobando culture e riti differenti. Nei giorni festivi le chiese sono invase dai fedeli dal mattino alla sera, molti genitori si rendono disponibili come volontari per i corsi di formazione previsti dal Vicariato, il cammino di catechesi per la prima comunione e la cresima permette ai ragazzi di vivere le differenze culturali ed etniche come una ricchezza.
«È ormai diventata una realtà ordinaria quella che l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, evoca come “Chiesa dalle genti”. Sta nascendo una nuova generazione di cattolici per i quali abitare la differenza sarà più facile perché il tutto sarà percepito come una realtà familiare: la diversità vissuta nell’unità. E il carattere interculturale della fede diventa un contributo a una società plurale in cui le differenze imparano a stimarsi e a condividere la vita buona di tutti».